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Quattordici giorni, innumerevoli storie di vita sullo sfondo di una New York piegata dal Covid: il volume curato da Atwood e Preston

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Quattordici giorni
a cura di Margaret Atwood e Douglas Preston
Ponte alle Grazie, ottobre 2024

pp. 416
€ 20 (cartaceo)
€ 13,99 (e-book)

Testo peculiare questo curato da Margaret Atwood e Douglas Preston: non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è un memoir celebrativo sui tempi del Covid. Forse è tutto questo insieme: che lo si voglia chiamare romanzo corale, romanzo a puntate o Decameron dei nostri tempi, Quattordici giorni vede il lavoro di trentasei scrittori e scrittrici contemporanei americani e canadesi, a ognuno dei quali è stato assegnato il compito di dare vita a un personaggio. 

Il titolo fa riferimento alla cadenza temporale: i capitoli infatti sono suddivisi in giorni, per l'appunto quattordici, e in queste due settimane i coinquilini di uno stabile malmesso del Lower East Side, costretti a casa dal Covid (ci troviamo infatti a fine marzo 2020) si vedono obbligati a prendere possesso del terrazzo del condominio. L'idea, dapprima solamente della nuova custode, Yessie, che pensa di aver trovato il suo personalissimo paradiso, viene a tutti: man mano che i giorni passano, sempre più coinquilini saliranno sul terrazzo, portando con sé le loro storie, i loro problemi, le ansie, e qualche sorprendente colpo di scena

Così, ogni sera, gli inquilini che avevano scoperto il tetto venivano su a farsi un giro. All'inizio eravamo in sei, e li ho cercati tutti nella bibbia del Fernsby. C'erano Vinegar del 2B, Eurovision del 5C, la Signora Inanellata del 2D, la Terapeuta del 6D, Florida del 3C, e Hello Kitty del 5B. Da un paio di giorni in qua, i newyorkesi si sono messi a fare questa cosa di applaudire i medici e gli altri che lavorano in prima linea alle sette di sera, verso il tramonto. Era un piacere poter fare qualcosa e interrompere la routine, per cui la gente del palazzo ha preso l'abitudine di trovarsi sul tetto poco prima delle sette, e quando veniva il momento, battevamo tutti le mani e facevamo il tifo insieme al resto della città, sbatacchiavamo pentole e soffiavamo nei fischietti. Quello era l'inizio della serata. Io ho portato su una lanterna che ho trovato nel ciarpame di Wilbur; era crepata, ma ci stava dentro una candela. Altri hanno portato su vari lumi e portacandele antivento: abbastanza per illuminare una piccola zona. Eurovision aveva una antica lampada a cherosene, col paralume di vetro decorato. (p. 25)

La Bibbia del Fersnby: nient'altro che una sorta di registro/diario tenuto dal precedente custode del condominio e andato "in eredità" a Yessie, su cui sono annotate pagine e pagine di aneddoti, segreti, caratteristiche dei coinquilini dello stabile. Ognuno di loro ha un suo soprannome (Hello Kitty, Eurovision, la Cocinera, Florida) e la storie della propria vita da raccontare, così come le perdite subite e i lutti. La struttura del testo mi ricorda un po' le antiche ambientazioni familiari o di abitanti di una villaggio che si riunivano vicino al fuoco e raccontavano storie, per sentirsi più vicini, per condividere tradizioni che altrimenti sarebbero andate perdute. Mi pare che i curatori abbiano proprio voluto riprendere questa impostazione: quando il mondo crolla e intorno non ci sono più appigli al reale, le persone si stringono intorno a un centro e cominciano a raccontare. 

Di fatto è quello che è successo a tanti di noi quando abbiamo capito che il Covid non sarebbe stata una cosa passeggera: c'è chi ha cominciato a scrivere, chi ha ripreso un vecchio romanzo lasciato nel cassetto, oppure hobby abbandonati; nella maggior parte dei casi il desiderio di calore umano si è tradotto in miliardi di storie che gli altri potevano leggere, vedere, ascoltare, condividere, anche a distanza. Nel caso dei coinquilini di Fersnby Arms (il palazzo a sei piani del romanzo), superate le reticenze iniziali, succede la stessa cosa: 

All'inizio non parlava nessuno, e a me andava benissimo. Avendo visto come veniva trattato mio papà dalla gente con cui viveva e a cui dava una mano, non ci tenevo per niente a conoscerli. Non starei con loro nemmeno quassù, se non fosse che al principio era il mio posto. Un custode che crede di farsi degli amici nel caseggiato va in cerca di grane. Anche in una maison demerde come questa tutti si sentono superiori al portinaio. Quindi il mio motto è 'Stai alla larga'. E poi era chiaro che neanche loro volevano conoscere me. Benissimo. (pp. 25-6)

E poi però, com'è naturale che sia, qualcuno comincia a prendere parola e da quella prima parola fluiscono storie lunghissime. Potrebbe sembrare l'ennesimo romanzo sul Covid, e in un certo senso lo è, ma è anche più di questo: paradossalmente è un libro divertente perché il tono ironico e caustico di Yessie (e quello di altri personaggi) alleggerisce il dramma che abbiamo vissuto. Divertente anche che non si possano riconoscere gli abbinamenti: nessuno sa chi ha scritto cosa, la curatela di Atwood e Preston ha amalgamato le voci in modo che il testo sembrasse scritto da una sola persona. Il che, a mio avviso, è già di per sé un'impresa incredibile. 

Il finale è sorprendente. Chiarisce tutti gli irrisolti e i misteri, che pochi non sono. Fa un po' da collante, da elemento che, in qualche modo, fornisce quel pizzico di speranza che serve in casi come questo. Inoltre, i racconti in prima persona dei personaggi sono godibilissimi: alcuni sono tristi, alcuni esilaranti, altri parlano di perdite, di sesso, di rapporti familiari, d'amore, amicizia. Nei racconti c'è tutto: la disperazione di una manciata di persone costrette a stare insieme, che traggono da un evento inedito il meglio (e il peggio) di sé. 

Ne consiglio la lettura a chi non è stufo di capire come sono andate le cose in quel periodo che, volente o nolente, ha fatto e sta ancora facendo storia.

Deborah D'Addetta