Cery
di Ottiero Ottieri
Utopia, 2024
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
"La vita, la vita, non parlavamo che dell’esistenza e dell’essenza del vivere giorno per giorno, di ora in ora" (p. 25)
Cery è un’opera dell’ultimo Ottieri e colpisce fin da subito per la lingua che esibisce: in un fraseggio scabro, sincopato, l’autore sceglie di non scegliere, presenta nella stessa frase più opzioni lessicali, gioca con i suoni, ricerca l’inciso che ferisce. L’aggettivazione si slancia al di sopra di qualsiasi possibile medietà, ambisce al guizzo inaspettato. Abbondano anche le parole straniere. Si vuole dire fin da subito l’instabilità emotiva, e allo stesso tempo l’acume mentale del protagonista, Filippo Ciai, in viaggio verso una clinica di cui ignora quasi tutto, financo il nome (crede di andare a La Prairie, si trova a Cery). Il malessere che ve l’ha condotto è profondo, eppure incomprensibile. Lui è un etilista inquieto, vorrebbe una terapia miracolosa, è ossessionato da qualunque donna lo avvicini e associa all’attenzione femminile la possibilità di una guarigione.
Mi tendevo come un arco senza freccia, aspettando una tregua. Non si realizzava. Aumentava una sofferenza che nessuno può immaginare, che metteva in gioco tutta la mia vita, come in un duello. […] Agivo solo nell’agitazione, tutto il resto mi faceva perdere tempo, una consequenzialità era impossibile. Avevo fretta di guarire, fretta di vivere. Il mio corpo doveva taumaturgicamente placarsi, non con la pazienza. Questa assurdità mi faceva acerbamente soffrire, mi disperava mentre aspettavo la calma con tutti i mezzi che non producono calma. (pp. 14, 15)
Il narratore è tagliente e politicamente scorretto, a tratti francamente sgradevole, senza che nulla, e di nulla, gli importi. La sua è una voce del tutto diversa rispetto a quella incontrata in Donnarumma all’assalto. Il suo divagare è ipnotico, magmatico. Non se ne intuisce la direzione, ma è difficile non assecondarlo. È uno scrittore bulimico («non potevo non narrare, ma senza invenzione, senza ispirazione, senza felicità», p. 48). Disserta di dipendenza, d’amore, di politica. Su tutto pare avere un’opinione. C’è anche tanta filosofia, da Nietzsche a Heidegger, e tanta letteratura, da Byron a Pasolini, da Goethe a Parise, da Zanzotto a Gadda, soprattutto Gadda («a me Gadda mi avvolge, mi sconvolge, mi muta, non posso non imitarlo anche nel parlare», p. 37). Tutto diventa occasione per esperimenti linguistici, per divagazioni ondivaghe, che si attorcigliano intorno a un’angoscia indistinta e pervasiva.
Ahhh! Vuol stilettarmi. L’anima sbuzzarmi. […] L’angoscia plumbea si era coagulata, bussava nella parte interna del costato, dolorando a neoplasia anche all’esterno, schiacciando il costato come fra incudine e martello, aveva invaso solidamente il povero petto, dall’ombelico alla gola. Non resistevo, non tolleravo. (p. 41)
L’anormalità non è più elemento elettivo per l’artista, ma diventa gorgo che
risucchia. Così il romanzo stesso, che sprofonda in un continuo ansiogeno dibattersi senza esito («nelle cliniche proseguiva l’impresa eterna
della mia esistenza, l’impresa tantalica, l’impresa frustrata. Vissi d’arte e
vissi d’amore. Non vissi. L’ereditarietà della follia, forse narcisa, mi
sovrastava», p. 54). Lo sguardo si allarga a tratti rispetto alla prospettiva egoriferita del narratore
per coinvolgere altri ospiti della
struttura, come Lotte o la signorina Mueller, destinatarie delle sue
ossessioni erotico-sentimentali, e di lettere mai spedite. Il principio di
piacere prevale sempre in lui sul principio di realtà e questo lo rende un
paziente ingestibile, e un protagonista per cui è impossibile provare reale
empatia.
La sfida di
Ottieri è primariamente intellettuale,
stilistica: descrivere a parole gli abissi della malattia mentale, della
dipendenza, i gorghi e le vette, le continue oscillazioni umorali. Lo fa dando
sfoggio di un linguaggio pirotecnico,
mobile, impastato di citazioni e tasselli letterari. Il passato ritorna per
frammenti sghembi, permette solo con fatica di ricostruire un quadro
contestuale. Tutto si esaurisce a Cery,
sempre in bilico tra luogo di guarigione
e di prigionia.
Gli elementi biografici sono forti, ed emergono non solo dalla conoscenza evidente e profonda del disagio psichico, ma anche dai continui inserti metaletterari, dalla riflessione ritornante sul mestiere di scrivere, vissuto dal narratore come un ulteriore viluppo («io scrittore senza fantasia, che ha sempre voluto scrivere senza fare lo scrittore, che non piaccio agli italianisti e sono un bad-sellerista, scrittore più che altro pratico e ‘infelice’, difficile che non ha mai ‘lavorato sul linguaggio’”, p. 126). L’autobiografismo diventa una nuova trappola, man mano che lo scrittore si scopre incapace di creare intrecci, di scrivere romanzi di successo, di accontentare la critica.
L’intreccio era sempre una nube nera in cui si annidava una tempesta. Ero nato per scrivere, avevo la vocazione, ma l’intreccio mi scuoteva, mi scassava, dalla testa al plesso, là dove i pensieri si trasfondono in scariche violente. La violenza era agitazione psicomotoria, contorsioni, mute grida, sofferenze senza scampo, travaglio da parto. Spesso il bimbo non nasceva. Ero sicuro invece che mi sbudellavo e scalciavo, battendo anche la testa contro il muro. (p. 47)
In un’opera decisamente complessa, da leggere e digerire, le pagine più riuscite sono quelle in cui si descrive il meccanismo della depressione, che viene assaltato da più lati e prospettive, nel tentativo di trovare una spiegazione o un senso univoci che si sanno impossibili. Coraggiosa si rivela la scelta di Utopia, che sta riscoprendo e riproponendo l’opera di un autore troppo spesso dimenticato e quasi certamente non allineato al tempo in cui scrisse. Al lettore è lasciata quindi la sfida di comprendere in che modo, piuttosto, possa parlare del nostro.
Carolina Pernigo
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