A volte per comprendere e raccontare un luogo e le sue persone è necessario prenderne le distanze. Ma è anche vero che da certi luoghi non si riesce mai ad andarsene del tutto. Ti restano addosso e allora prendono la forma di una storia che se lo scrittore è abile abbastanza supera i confini geografici troppo circoscritti e quel posto così caratteristico da cui tutto è partito diventa un altrove non più limitato dal tempo e dallo spazio, capace in un certo senso di farsi universale.
Stefano Galardini, scrittore genovese trapiantato da tempo nel milanese, è riuscito a mio avviso col suo secondo romanzo a fare proprio questo, raccontare una storia dalla connotazione geografica molto precisa e perfettamente tratteggiata ma che supera i propri limiti geografici e temporali, con il respiro di una narrazione più grande. È atroce la luce, da poco in libreria per 8tto edizioni, al netto di qualche difetto e debolezza, dimostra una certa tenuta narrativa da parte di Galardini, già autore di un romanzo e diversi racconti pubblicati su riviste e in antologie, l’eco dei grandi maestri della narrativa rurale statunitense, chiamiamola così per il momento, e una voce propria che si sta delineando piuttosto bene e chiaramente. L’influenza di una certa narrativa statunitense che va da Chris Offutt a Ron Rash passando per Flannery O’Connor, Eudora Welty, Faulkner, Wendell Berry e Kent Haruf, sono la tradizione letteraria su cui Galardini lettore si è formato, come mi confermò lui stesso nella breve chiacchierata che abbiamo avuto occasione di fare durante Book City a Genova, confrontandoci su quegli autori da entrambi molto amati. Senza voler scomodare i grandi maestri e finire poi per fare un torto a un autore promettente davvero, è evidente che l’eco di queste storie si è sedimentato in Galardini e ne ha forgiato una certa idea della narrazione, della geografia letteraria.
Una geografia che parte dai confini circoscritti dell’entroterra ligure, nella comunità fittizia di Morre ma che non solo assomiglia moltissimo a luoghi reali lontani dai centri urbani ma che in qualche modo da quei confini riesce a uscire per rappresentare egregiamente la realtà rurale di fronte al cambiamento, il legame con la terra, l’avidità e gli abusi contro il territorio, l’influenza del luogo sulle persone. Ci sono varie chiavi di lettura possibili per questa storia cui le etichette di genere stanno strette, una stratificazione di tematiche e spunti mai eccessiva di cui la sovrabbondanza semmai è qualche volta nella metafora cui l’autore indugia un po’ troppo e in un lirismo stonato a tratti. Resta però una narrazione forte, tesa in una trama avvincente e densa su piani temporali differenti.
Morre, si diceva, è la piccolissima comunità tra montagne e mare, quella che nella realtà potrebbe benissimo essere uno dei tanti borghi investiti dal cambiamento, quasi spopolato ma anche tenacemente difeso da chi la terra e i luoghi di sempre non è disposto ad abbandonarli. Una comunità tutt’altro che idilliaca, come sarà sempre più evidente entrando nella storia, fatta di uomini e donne ognuno con il proprio carico di segreti, interessi, rabbia e colpa, che la tragedia di lì a poco venuta a colpirli finirà per esacerbare mettendone a nudo meschinità e giochi di potere e in cui è difficile distinguere tra buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, fino in fondo. Quella che si dispiega davanti al lettore all’inizio della storia è una realtà già spaccata dal cambiamento in atto: sono appena iniziati i lavori per la costruzione dell’autostrada che muterà per sempre la valle, i suoi orizzonti, e la vita delle persone che la abitano; qualcuno accoglie il cambiamento con favore, per la promessa di denaro, nuovi flussi di persone che i lavori portano con sé e spostamenti più agevoli che collegheranno Morre al resto della valle; altri, al contrario, sono profondamente contrari alla confisca di quelle terre acquistate con fatica e su cui si è lavorato ogni giorno per tutta la vita, ma anche timorosi per quelle che sembrano solo promesse di una ricchezza cui non tutti finiranno per beneficiare davvero. I lavori di costruzione tuttavia sono avviati, il sindaco, l’uomo più potente del paese, ne è un fervido sostenitore, e poco o nulla potranno fare quei pochi vecchi ostinati e attaccati alla terra. Fuori dal paese e turbati dal cambiamento avviato, Giuà e la moglie Rea, settantenni, portano avanti la vita che hanno condotto per tutti quegli anni, i giorni talvolta confusi gli uni con gli altri e un legame indissolubile con la terra conquistata faticosamente.
Non era chiaro a nessuno dei due quando fosse successo, ma lui e Rea si erano piano piano ritirati all’interno degli orizzonti del proprio mondo. Il lavoro nel Roveto e le stagioni avevano mescolato i ricordi e le percezioni, talvolta faticavano a credere di non essere sempre stati lì, di non essere sempre stati loro due e basta. (p. 46)
Poco distante da loro, ancora più lontano dal paese e dalle sue dinamiche, il vecchio Frescolana, rimasto solo dopo la perdita della moglie e un figlio a vivere in qualche città del nord. Quella di Giuà e Rea è una vita semplice, dedita alla terra e alle arnie, illuminata dalle visite dell’amato nipote Andrea, tra i pochi giovani ancora rimasti in quel luogo, cui è particolarmente legato. Ma a legarlo e non in senso positivo è sopratutto il fantasma del padre, Delio, il fratello di Giuà, che se n’è andato la notte stessa in cui lui è nato e di cui da allora non si hanno più notizie.
Andrea non aveva mai accennato all’idea e Giuà temeva che sotto sotto aspettasse più o meno consapevolmente che suo padre facesse ritorno. Sotto sotto ci sperava ogni giorno anche lui, anche dopo vent’anni. (p. 40)
Un fantasma che grava sulle vite di tutti loro, con il carico di domande senza risposta che si è portato con sé, ovunque si trovi, e il peso di una colpa che ha finito per contagiare anche loro: Delio, infatti, è accusato del furto del trittico d’oro trafugato dalla chiesa di Morre il giorno stesso che lui se n’è andato e come l’uomo mai più ritrovato. È evidente per tutti che il colpevole sia Delio, ne è prova la scomparsa nello stesso giorno ma soprattutto i traffici di cui tutto il paese è a conoscenza, il contrabbando, gli affari loschi al confine tra Morre e la Francia; e forse è davvero lui il colpevole, che la sera della sua scomparsa ha avuto una lite furibonda proprio con Giuà e Rea. La colpa, seppur non accertata, resta in qualche modo su entrambi, ma è quando a seguito di una terribile frana che coinvolge il paese e fa emergere i resti di un corpo umano che la frattura si fa insanabile: Giuà è convinto che sia Delio e si mette contro tutto il paese che vorrebbe tacere del ritrovamento per non fermare i lavori di scavo per l’autostrada. Ma il fantasma del fratello e i segreti che ne hanno accompagnato la scomparsa sono un fardello che non è più disposto a portare, né lui né il nipote Andrea, entrambi bisognosi della verità. Neanche Rea li sostiene in quello che diventerà un viaggio a ritroso nel tempo, tra segreti, omertà, colpe e capri espiatori su cui sfogare la rabbia di un paese destinato alla rovina, convinta lei stessa che il passato debba restare sepolto dove si trova.
[…] tu sei uscito fuori dal coro e gli hai dato ciò che desideravano di più. Qualcuno a cui dare la colpa per il mondo che è cambiato e che li ha lasciati indietro. (p. 252)
In una storia dal ritmo incalzante, in cui ho avvertito forte l’eco di Un piede in paradiso di Ron Rash, Galardini intreccia sapientemente le atmosfere del thriller al romanzo rurale, in una stratificazione di spunti e riflessioni su cui soffermarsi oltre lo svelamento dei fatti e lo scioglimento dei nodi cruciali del libro. È, in primo luogo, la riflessione sul cambiamento e ciò che comporta, il legame con la terra, un rapporto viscerale di cui proprio Frescolana e Giuà, uomini di poche ma precise parole, riescono a dare corpo in uno scambio che spiega perfettamente i sentimenti contrastanti del lavoro agricolo:
Giuà capiva. Faceva fatica a credere che ci fosse qualcuno che non potesse capire quell’amore viscerale. Per i dolori alla schiena quando aveva vent’anni, per l’artrosi alle dita quando ne aveva quaranta, per quel continuo lavorare e preoccuparsi che il lavoro non finisse mai, si era sentito vecchio da sempre e libero mai. Ma non l’avrebbe fatto se in quel lavorare, in quei sacrifici continui, non avesse trovato anche un poco di grazia, fosse anche solo un po’ di serenità. (p. 222)
Una grazia che ha trovato fin da ragazzo, bracciante su una terra di altri, un desiderio che lo allontanava già dall’amato fratello, dalle ambizioni più grandi. Ma Giuà è nella terra che trova la propria dimensione, nel lavoro sui campi, nella cura delle arnie, gli spazi aperti, la casa e l’orto, la vita con Rea. «Ce n’era già abbastanza da complicarsi per bene la vita, a suo parere» (p. 66), senza bisogno di cercare altrove i guai e la fatica. Anche il legame con Rea è indissolubilmente legato alla terra e la loro vita insieme scandita da gesti consueti, abitudini, poche parole ma un solido sentimento. Ora che il passato sembra venuto a chiedere il conto e la rabbia di Morre cerca un capro espiatorio su cui sfogare la propria frustrazione l’equilibrio fondato su segreti e omissioni crolla sotto il peso della verità.
Ecco, la ricerca spasmodica della verità è un altro spunto di riflessione molto interessante in questa storia: riguarda naturalmente la vicenda interna ma permette anche di ragionare sul peso stesso della verità, sulla discrepanza tra l’immagine che abbiamo delle persone amate e ciò che sono realmente. Così come i confini geografici in questa storia sono coordinate di un luogo che è tanti luoghi simili, similmente anche quelli tra buoni e cattivi, colpa e innocenza si fanno labili ed è presto evidente che non potrà esserci una vera redenzione per tutti. Non è la comunità solidale di Wendell Berry, la sua narrazione consolatoria, l’happy ending che pacifica ogni tribolazione; quella di Galardini è più vicina alla brutale realtà di Chris Offutt, ai segreti sepolti dall’acqua di Rash, alle colpe di Tom Drury. Spogliato di certi lirismi stridenti, la metafora talvolta si diceva un po’ ingombrante e artificiosa, È atroce la luce è un romanzo saldo, di ampio respiro, per nulla incline alle mode nostrane ma più interessato a un racconto che possa superare il momento e la geografia specifica. Galardini non ha ritratto la rovina di un vecchio borgo dell’entroterra ligure, come non ha ritratto quegli uomini e quelle donne che abitano le sue terre natali che sono in parte anche le mie: ha ritratto, semmai, l’antica tensione tra l’ostinato restare e il desiderio di fuga, il cambiamento e ciò che comporta, le ferite alla terra, l’avidità e la violenza dell’essere umano. Può averlo fatto in modo imperfetto, ma la direzione della scrittura mi pare quella giusta. Gli orizzonti ben più ampi di quelli di Morre.
Debora Lambruschini
Social Network