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Nessun crimine collettivo può restare segreto. La cruda e doverosa testimonianza di Anatolij Kuznecov del massacro di “Babij Jar”

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Babij Jar
di Anatolij Kuznecov
Adelphi, 7 marzo 2019

Traduzione di Emanuela Guercetti

pp. 454
€ 26,17 (cartaceo)
€ 10,99 (eBook)

Tutto in questo libro è verità.

Babij Jar è uno dei libri più crudi e, allo stesso tempo, necessari, che ho letto sull’Olocausto. Si tratta di una testimonianza nata dall’urgenza di non dimenticare ciò che era successo nei pressi di quel burrone, nella periferia di Kiev, in Ucraina, chiamato da tutti Babij Jar. Lo stesso autore nella dedica Ai lettori spiega l’origine di questo romanzo-documento, abbozzato già quando aveva solo dodici anni, integrato poi dalle storie raccontate da chi ha visto e vissuto davvero quelle terribili esperienze. L’opera ha avuto una storia editoriale molto complessa e tormentata sin dagli albori: è stata tacciata dalle case editrici e dalle riviste sovietiche - «Junost’» [Gioventù], la prima cui Kuznecov si era rivolto per la pubblicazione - di essere pregna di propaganda antisovietica. Nelle sue prime edizioni il libro è stato ritoccato, ha subito tagli di ogni genere fino a quando l’autore non ha deciso di lasciare l’ex URSS e di pubblicare l’opera in Occidente nella sua versione integrale, che è quella che possiamo leggere nell’edizione Adelphi, nella pregevole traduzione di Emanuela Guercetti.

Non era difficile credere al fatto che gli editori fossero intimoriti di urtare le autorità sovietiche: nel burrone di Babij Jar, tra il 1941 e il 1942 sono stati compiuti i più efferati e vergognosi crimini contro l’umanità. Erano stati fatti cadere giù di fila, a colpi di fucile, non solo gli ebrei ucraini, ma oppositori russi e ucraini, polacchi, di ogni nazione, rom, perché sospettati di partigianeria o anche per noia, per il semplice piacere di uccidere. A Babij Jar, così come ad Auschwitz, a Mauthausen, l’umanità ha perso il suo volto, perché dove c’è violenza e umiliazione, l’uomo viene privato della sua dignità. L’enorme burrone, sito in una località amena, prima dell’eccidio, era contornato da boschetti e da un ruscello di acqua limpida: era luogo di giochi per il piccolo Tolja (diminutivo di Anatolij, l’autore), fino a quando, all’indomani della liberazione, avendo avuto accesso di nuovo a quell’area che era tenuta proibita durante l’occupazione nazista, non fa una terribile scoperta:

Conoscevamo quel ruscello come le nostre tasche, da bambini lo sbarravamo con piccole dighe di rami e frasche, che chiamiamo gatki, e ci facevamo il bagno. Sul fondo c’era sempre una bella sabbia grossa, ma adesso, chissà perché, era tutta cosparsa di sassolini bianchi. Mi chinai e ne raccolsi uno per osservarlo meglio. Era un pezzettino d’osso bruciacchiato grande quanto un’unghia, bianco da un lato e nero dall’altro. Il ruscello li aveva portati via da chissà dove e li trascinava con sé. Ne deducemmo che agli ebrei, ai russi, agli ucraini e alla gente di altre nazionalità avevano sparato più a monte. E così seguimmo a lungo quegli ossicini, finché non arrivammo proprio all’inizio del burrone, e il ruscello scomparve: era lì che nasceva da molte sorgenti che stillavano dalle falde sabbiose sottostanti, e appunto da lì aveva portato via le ossa.

Babij Jar era diventata tra il 1941 e il 1942 una fossa comune, i corpi senza vita erano ammassati uno sull’altro. Il piccolo Tolja decide di raccogliere diversi pezzetti di ossa e di quella cenere bianca, un misto di diverse ceneri provenienti da chissà quanti corpi, di quali nazionalità, un vero miscuglio internazione. È da quel momento che il nostro giovane autore decide di conservare quella testimonianza: «Allora decisi che bisognava prendere nota di tutto, fin dall’inizio, così come era stato veramente, senza tralasciare e senza inventare nulla. Ed è quello che appunto sto facendo, perché so che ho il dovere di farlo, perché, come è detto nel Thyl Ulenspiegel, «le ceneri di Claes battono sul mio cuore».

L’opera è corposa, e non è soltanto un documento-testimonianza, ma anche è il racconto della vita dell’autore, di ciò che ha visto e vissuto, delle persone che gli stavano attorno, emaciate e distrutte dalla fame, incapaci di fare due passi senza stramazzare a terra in quegli anni in cui l’orrore personificato ghermiva Kiev. Il lettore fa conoscenza con la nonna dell’autore, altruista e fervente cristiana ortodossa, col nonno che ricorda la vita sotto gli zar e la rivoluzione bolscevica, le violenze - tutte documentate da puntuali articoli di giornale riportati nelle note - che videro come teatro il burrone di Babij Jar e le retate naziste che costringevano a far uscire di casa povera gente che aveva sempre evitato di mostrarsi al pubblico. Kiev era diventata una città lacerata nel suo cuore prima dalla rivoluzione bolscevica, poi dall’incubo nazista capace di ogni efferatezza contro uomini, donne, anziani e bambini.

Babij Jar è diviso in tre parti e si presenta come un lungo e veritiero racconto, amaro e spietato, inframmezzato a brevi considerazioni dell’autore al termine di ogni sezione del libro. Ho trovato acute le sue considerazioni sulla civiltà, su quello che Kuznecov chiama «umanesimo», un concetto cumulativo che dovrebbe incarnare i valori più alti dell’uomo. Di fronte a tale degrado e a tale bestialità, la stessa cultura è ridotta al fumo di libri bruciati che non avrebbero saputo dare una risposta alla domanda “perché questo?”. Gli umanesimi sono tanti quante sono le civiltà e anche quello tedesco che sembrava il più nobile, il più lodevole, ha lasciato cadere la maschera e ha mostrato un teschio sogghignante.

Adesso si scopriva che era tutto sbagliato. L’umanesimo TEDESCO, ecco che cosa era stato proclamato, ancora una volta in contrapposizione all’umanesimo universale, indistinto, inefficace e perciò ostile, per il quale c’era un solo posto: Babij Jar. [L’umanesimo sovietico, l’umanesimo tedesco, l’umanesimo assiro, l’umanesimo marziano – oh, quanti ce ne sono al mondo, e ciascuno mira per prima cosa a sterminare il maggior numero di poveri diavoli, comincia dai Babij Jar e con essi finisce. Babij Jar: ecco il simbolo autentico delle vostre culture e dei vostri umanesimi]. (Le parentesi quadre sono dell’autore e corrispondono alle parti censurate nelle precedenti edizioni sovietiche) 

Questo libro è stato il primo monumento alla memoria dell’eccidio di Babij Jar, una delle pagine più buie della storia europea e dell’umanità, raccontata in maniera asciutta e immediata, senza fronzoli retorici e che ci ammonisce: non si può ingannare la storia! Per quanto i nazisti abbiano provato a insabbiare le prove dei loro crimini, le vittime parlano ancora attraverso le loro ceneri, le loro ossa, i graffi delle loro unghie.

Eppure credo che nessun crimine collettivo possa restare segreto. Si troverà sempre qualche zia Maša che ha visto, o si salveranno quindici persone che testimonieranno, o forse due, o magari una sola. Si può bruciare, disperdere al vento, ricoprire di terra, calpestare – ma la memoria umana sopravvive. Non si può ingannare la storia, ed è impossibile nasconderle qualcosa per sempre.

Marianna Inserra