di Bianca Sorrentino
Il Saggiatore, ottobre 2024
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«Uno stupore bambino ci contagia ogni volta che ci accostiamo alla lente di un caleidoscopio, alla vista di quei colori saturi e smaltati, della simmetria delle forme che si offrono al nostro sguardo nel loro riposante equilibrio. Basta un tocco e la magia si rinnova: quel paesaggio astratto, che un momento prima ci aveva catturato, tutt’a un tratto si disfa, rivelandoci la sua natura effimera, e con gli stessi elementi ricompone una nuova verità. Ecco che, davanti ai nostri occhi increduli, le proiezioni si rinfrangono, le figure si sdoppiano o si capovolgono nel loro contrario.» (Introduzione)
Fragili, appassionate, ammaliatrici, astute, sognatrici e persino ribelli. Che insegnamenti possono regalarci, ancora oggi, le donne del mito, sfuggite all’oblio del tempo grazie alle loro personalità, alle vicende che le hanno rese indimenticabili e alle “rivoluzioni” di cui si sono fatte portavoce?
La capacità e il
valore dell’auto-determinazione,
principio che solo chi ha il coraggio di lottare per ciò in cui crede,
rivendicando la propria libertà anche
a costo di superare “il limite” imposto per la propria condizione di donna e generare uno scandalo, può pienamente
raggiungere. Ci insegnano a guardare
oltre l’apparenza, che svilisce e depotenzia una società fatta di stereotipi: quella antica, così come
quella contemporanea. Ci invitano, con il loro complicato vissuto, ad
approcciarci alla realtà in maniera meno superficiale attraverso uno sguardo “caleidoscopico”, che possa favorire una comprensione più
profonda delle cose e restituire a ogni individuo la propria meravigliosa
unicità.
Ed è proprio
questa visione “caleidoscopica” il filo conduttore dell’indagine sull’universo
femminile del mito condotta da Bianca Sorrentino, nel suo ultimo libro Pensare
come Medea, pubblicato per Il Saggiatore dopo il successo del
precedente saggio Pensare come Ulisse (2021).
Come ben si evidenzia già nell’Introduzione (Medea e le altre: il tempo delle donne impareggiabili) l’autrice, promettente studiosa del mondo classico e cultrice della “parola”, avvia infatti il suo lavoro rintracciando una similitudine fra il caleidoscopio e il mito: «A questo gioco di specchi assomiglia il mito, per la mutevolezza della sua essenza imperdibile, per la varietà del suo racconto, che fin dall’antichità reinventa se stesso in un canto prodigioso e mai uguale». Prosegue, poi, mettendo in risalto una circostanza fondamentale per comprendere perché la società contemporanea abbia ancora necessità di coltivare un legame con il mondo del mito:
«alla medesima idea di molteplicità si accorda la fantasia del moderni, i quali rievocano la parola del passato per contestarla o per illuminare i lati d’ombra, inverandone sempre però la ragione originaria, quella tensione inesausta che spinge a chiedersi il perché delle cose del mondo, a cercare risposte alternative alle domande eterne che tormentano l’umano». (pp. 11-12)
È per l’esigenza di darsi delle risposte – per rintracciare il perché delle cose – che, nel mondo antico, nacque il mythos, di cui il teatro greco – che per la sua funzione paideutica non rappresenta una semplice opera di intrattenimento né di mera erudizione – si è sempre nutrito per continuare a stimolare l’uomo ad analizzare la realtà in maniera più critica. Ed ecco che ci viene trasmesso dal passato un altro insegnamento, di valore per noi inestimabile: il “peso” del pensiero critico; un vero tesoro da recuperare e salvaguardare in una società che, troppo spesso, rischia di appiattirsi e di apparire acritica.
«Ogni volta che riapriamo il libro dei miti, ritroviamo parti di noi che, per qualche motivo si erano smarrite e ne sentiamo risuonare altre che neppure conoscevamo; […]». (p. 63)
Il mito può, dunque, rappresentare, ancora oggi, un punto di partenza per riflessioni universali e per sviluppare una conoscenza più profonda di noi stessi e del mondo. Proprio per guidarci nel recupero di uno “sguardo differente”, attraverso un percorso che possa andare oltre ogni stereotipo, il variegato universo femminile di Pensare come Medea, magistralmente ritratto in tutte le sue sfumature da Bianca Sorrentino, attende con fiducia di essere compreso dai suoi lettori. E ogni protagonista rappresenta “un incontro”; un’opportunità per recuperare il mito, ma anche per ripensarlo sotto una nuova luce.
Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope; Medea, Elettra, Ismene; Euridice, Psiche, Saffo; Ecuba, Cassandra, Andromaca, le Amazzoni; Didone, Antigone, le Ekklesiazuse: ognuna di loro ha qualcosa da dirci, una colpa da scontare, un pregiudizio da scardinare, un insegnamento da trasmetterci. Fra loro, campeggia sin dal titolo la figura di Medea, l’infanticida, che forse più di tutte ha evocato nei lettori e negli spettatori di ogni tempo l’immagine dello scandalo:
«Fra queste figure, giganteggia quella di Medea, la maga della Colchide che mette il suo ingegno al servizio dell’amato Giasone, il quale ha bisogno dell’aiuto di lei per compiere la sua impresa leggendaria. Evocarne il nome può incutere terrore, perché siamo abituati a dichiararla colpevole in quanto figlicida, ma la vicenda che la vede protagonista, nella sua interezza, ci suggerisce di soffermarci sugli aspetti che la rendono una donna-mondo, una creatura cioè capace di contemplare dentro di sé complessità che non possono essere liquidate in maniera approssimativa». (pp. 12-13)
Attrazione, repulsione, condanna: emozioni contrastanti hanno sempre caratterizzato la ricezione e interpretazione di una figura femminile che, nonostante gli stereotipi, continua ad attirare folle di spettatori, librandosi ancora in volo, indomita, sul carro alato del dio Sole. Indubbiamente una delle personalità più forti che la tradizione mitica ci abbia consegnato. Ma, quale sarebbe la reale colpa di Medea? L’essersi macchiata di infanticidio o l’aver agito come un uomo? A voler guardare oltre l’infanticidio – che all’epoca destava scalpore solo perché compiuto da una figura femminile – la sua storia è quella di una donna che, per amore, ha abbandonato famiglia e patria e ha cercato, da barbara, di integrarsi in una civiltà diversa dalla propria, per poi venire ripudiata.
«Medea è la ragazza che non esita ad abbandonare l’orizzonte del noto per correre incontro alla sua avventura; è la strega depositaria di un sapere antico che accetta di mettere da parte quando abbraccia la nuova vita; è la moglie che ripone fiducia nella sacralità del giuramento e crede perciò al patto d’amore di Giasone e alla promessa ellenica di civiltà; è la barbara che si esprime in greco con invidiabile consapevolezza, traducendo se stessa in una lingua altra; è la straniera ripudiata e priva di sostegno, che deve inventarsi una via di fuga per il domani; è la dea ex machina di se stessa che sale a bordo del carro del Sole e si alza in volo, libera e indomabile, mentre noi, seduti sullo scranno di chi giudica, la condanniamo, pur fraintendendone la tragedia, per sentirci migliori». (p. 13)
Per la maga della Colchide uccidere i propri figli non è un gesto di follia, sebbene ai giorni nostri sia diffusa la definizione di “sindrome di Medea” proprio per i casi di infanticidio dettati da raptus; la sua vendetta, che è ben studiata, le è necessaria per rivendicare se stessa e auto-determinarsi. Una vicenda che serve per farci riflettere sulle tenebre che possono offuscare il cuore: «Medea, sulla scena di Corinto, deve uccidere i propri figli innocenti affinché noi ancora oggi possiamo accorgerci delle nostre debolezze più turpi e prenderne convintamente le distanze» (p. 82). Si comprende, dunque, perché l’autrice abbia voluto riservarle uno spazio significativo fra tutte quelle donne del mito che, dovendo fare i conti anche con lo smarrimento di sé, rompono gli schemi.
A rompere gli schemi, per la sua originalità, è anche la struttura del libro, diviso in cinque sezioni i cui titoli fanno riferimento agli stereotipi a cui sono ricondotte le figure femminili trattate nella sezione stessa: 1-Non solo Ulisse; 2-Madri, figlie, sorelle; 3-Amate, Amanti; 4-Vittime, Guerriere; 5-Sovrane, Cittadine. Ogni stereotipo viene, però, prontamente smentito dalla Sorrentino già nei titoli dei singoli capitoli, ciascuno dedicato ad una delle protagoniste; per esempio, la sezione “Non solo Ulisse” comprende i capitoli Calipso: sulla solitudine; Circe: sul desiderio; Nausicaa: sulla purezza; Penelope: sulla tessitura. Mentre all’interno della sezione “Madri, figlie, sorelle” troveremo i capitoli Medea: Madri che tolgono la vita; Elettra: figlie che disobbediscono; Ismene: sorelle che non sono all’altezza. Come già detto, ognuna di queste figure femminili rappresenta per il lettore, al contempo, il recupero della tradizione mitica, ma anche la possibilità di sperimentare molteplici interpretazioni che consentano di guardare a queste donne, e al mito stesso, con occhi differenti. A questo proposito, si segnala la presenza di un elemento che arricchisce ulteriormente la narrazione, offrendo infiniti spunti alla “visione caleidoscopica”: le numerose riscritture moderne dei miti e delle figure femminili, selezionate e analizzate con acume dalla studiosa.
È proprio in
questa molteplicità che ciascuna delle protagoniste, liberatasi dagli
stereotipi e riappropriandosi delle sue “sfaccettature”
nascoste, ritrova la propria unicità. Sarebbe impossibile, in questa sede,
soffermarci su ognuna delle protagoniste di Pensare come Medea rendendo
il giusto merito al loro vissuto, alle molteplici riscritture realizzate nel
tempo, così come al lavoro compiuto da Bianca Sorrentino. Vi invito a farne
esperienza diretta e approfondita attraverso la lettura del libro, che ho molto
apprezzato per le sue finalità, per gli
infiniti spunti culturali, per la piacevolezza della scrittura e
l’accurato labor limae che si evidenzia nelle scelte linguistiche e
lessicali operate dalla studiosa.
Desidero, però, spendere alcune parole su alcune delle figure che più mi hanno emotivamente colpita, forse perché sono quelle che ho amato particolarmente da liceale, quando ho imparato che classico è tutto ciò che non tramonta mai e ho compreso che quel mondo, in qualche modo, avrebbe fatto sempre parte di me. Penelope; Antigone e Ismene; Saffo.
Penelope, soggetta a «quel pregiudizio che si è consolidato nel tempo, in base al quale troppo spesso abbiamo finito per identificarla con una donna remissiva, imprigionata nello stereotipo di una moglie fedele, rassegnata ai tradimenti del marito» (p. 56) rappresenta, in realtà, con la sua astuzia, la sua risolutezza e il suo coraggio il perfetto alter ego femminile di Ulisse. E l’attesa stessa del suo sposo diventa per la regina di Itaca, in un certo senso, un percorso di crescita e formazione, una sorta di nostos interiore, parallelo e complementare a quello di Ulisse. Nel capitolo a lei dedicato emergono tutti questi aspetti, che riducono - e quasi annullano - la differenza di genere fra i due; viene, inoltre, approfondita la componente psicologica attraverso l’analisi della toccante riscrittura di Margaret Atwood (Il Canto di Penelope), che individua nel rapporto con le figure genitoriali le origini dell’«apprendimento dell’arte dell’autosufficienza» (p. 58).
Le figure di Antigone e Ismene, figlie-sorelle sfortunate di Edipo, vittime del destino che ha colpito il loro ghenos, vengono collocate dall’autrice in due sezioni differenti del libro. Ho apprezzato questa scelta che restituisce la sua unicità a Ismene, troppo spesso relegata in un angolo dalla tradizione come la sorella “non all’altezza” di Antigone. Qui Ismene, «cresciuta nella fortuna letteraria all’ombra della ben più nota e coraggiosa Antigone» (p. 115) è, inoltre, protagonista di una delle riscritture del poeta greco Ghiannis Ritsos (un poemetto della raccolta Quarta dimensione) nella quale, attraverso un monologo condotto con uno sguardo lucido e dissacrante, fa scoprire aspetti inediti di Antigone, un personaggio per lungo tempo idealizzato. E mentre assume maggiore spessore la figura di Ismene, Antigone viene, in un certo senso, ridimensionata nel suo ruolo di paladina dei diritti umani:
«È giovane, Antigone, ma per il suo insostituibile Polinice è disposta a sfidare il potere e la vita. Per questo la sua rivolta non deve essere confusa con una generica rivolta per i diritti umani: la ragazza, a ben vedere, si fa custode della legge della famiglia, sì, ma esclusivamente della sua». (p. 227)
E infine, Saffo, la poetessa rivoluzionaria dell’isola di Lesbo, che se non rientra propriamente fra le donne del mito, è da considerare indubbiamente un “mito letterario” «non solo perché la sua figura si è fatta strada nell’immaginario trasformandosi essa stessa in un mito, ma anche per via del fatto che con la sua poesia riuscì a superare i confini dell’essere oggetto/soggetto del discorso amoroso, divenendone autrice, oltre che protagonista» (p. 155). Il suo grande merito è quello di aver dato spazio ai valori della soggettività, dedicando i suoi versi all’Amore “dolce-amaro” in una società ancora dominata dagli ideali guerrieri e dai valori dell’epos. Saffo è una donna che, per molti aspetti, ha "rotto gli schemi”, impegnandosi direttamente nell’istruzione e realizzando una vera e propria rivoluzione culturale. Ne è conferma il fatto che la sua “Voce”, attraverso i secoli, sia arrivata fino a noi; proprio come quella delle altre donne di Pensare come Medea:
«Voci del mito, voci dalla storia, voci di ragazze interrotte che ci esortano a riappropriarci della nostra unicità dentro un mondo di maschere, ad andare incontro ai nostri desideri dentro un universo che incoraggia l’apatia». (p. 132)
Federica
Malara
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