Corbaccio, gennaio 2025
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«Cari lettrici, cari lettori, è da quasi ottant’anni che sto scrivendo questo libro. Da quando ne avevo sedici e vivevo sulla mia pelle gli orrori della Shoah […]. Raccontare la mia vicenda è per me una responsabilità personale: mi sento tenuta a dire la verità su quanto è accaduto perché non venga dimenticato, ma anche a trasmettere un’eredità e una speranza ed entusiasmo per la vita, perché i miei genitori e milioni di altri non siano morti invano. Il mio desiderio è perpetuare il trionfo e la celebrazione della vita.» (Nota dell’autrice, p.7)
Verità, speranza e celebrazione della vita come strumento di resilienza e sopravvivenza: sono questi gli elementi chiave dell’ultimo libro-testimonianza di Edith Eva Eger, La ballerina di Auschwitz, pubblicato per Corbaccio nel mese di gennaio 2025, a poche settimane dalla “Giornata della memoria”, data simbolica per ricordare e onorare le vittime della Shoah. Il libro rappresenta la terza pubblicazione sull’argomento dell’autrice, ebrea ungherese sopravvissuta a Auschwitz e psicoterapeuta esperta nei disturbi da stress post-traumatico, il cui esordio letterario si colloca nel 2017 con La scelta di Edith, che nel 2023 ha ispirato il film Edith una ballerina all’inferno. Fra le due pubblicazioni, sempre per le stampe di Corbaccio, si segnala anche Il coraggio di rinascere. Lezioni di resilienza (2021), in cui Edith Eva Eger, facendo tesoro della sua esperienza di sopravvissuta e di quella dei propri pazienti, vuole guidarci nella capacità di sviluppare resilienza attraverso la rielaborazione della sofferenza e del trauma.
Con l’ultima pubblicazione, riadattamento di La scelta di Edith, il focus torna, più nello specifico, sulla storia personale della protagonista, una storia di speranza e coraggio, condotta in prima persona attraverso un’impostazione narrativa autodiegetica, che ci invita a guardare agli orrori della Shoah con lo sguardo di chi ha fatto della resistenza e della sopravvivenza il proprio “credo” quotidiano, perché «una storia sulla capacità umana di fare il male può anche diventare una storia sulla nostra inesorabile capacità di sperare» (p. 7). E di coraggio e speranza abbiamo tutti bisogno, a maggior ragione di fronte agli eventi più bui e imperdonabili di un’umanità che si fatica a definire tale, alla ricerca di una percorso di redenzione e della possibilità di ricostruzione. Ne abbiamo bisogno tutti, ma principalmente i giovani, interlocutori privilegiati dell’autrice, che rivolge loro un invito a diventare ambasciatori di pace e a «scegliere di vivere danzando, anche nelle circostanze più infernali» (p. 8).
Proprio come la ballerina di Auschwitz, che nell’immagine di copertina, in punta di piedi, nonostante tutto, si eleva con grazia ed eleganza, sul filo spinato della morte: un’antitesi perfettamente riuscita che colpisce contemporaneamente l’occhio e il cuore del lettore ancor prima che si avvicini alla lettura del testo. Nella “Giornata della memoria”, catturati dalla pregnanza di quest’immagine, avviciniamoci, dunque, a questa lettura con la curiosità e l’interesse di chi sa fare tesoro di una testimonianza in più per non dimenticare, e con il profondo rispetto che meritano Edith, la sua famiglia e, insieme a loro, tutte le vittime della Shoah.
Edith – Dikuka, secondo il nomignolo assegnatole dalla madre - è una sedicenne vivace e curiosa; legge Zola, ha la passione per il ballo e aspira a partecipare alle Olimpiadi come ginnasta. Di origini ungheresi e di religione ebraica, vive a Koŝice. La sua famiglia non è perfetta, anche se si dimostrerà molto unita nel momento della difficoltà. Edith è la terza femmina, la più piccola, e fatica a sentirsi accettata e apprezzata dai genitori a causa soprattutto del confronto con Klara, talentuosa violinista, e Magda, che si segnala per la sua bellezza «È un bene che tu abbia il cervello, perché ti manca l’aspetto» (p. 11); «Io sono abituata ad essere la sorella silenziosa, quella invisibile, talmente convinta della mia inferiorità che non mi presento quasi mai usando il mio nome. “Sono la sorella di Klara” dico» (p. 17). Le sue sorelle stesse non le sono molto d’aiuto in quel processo di costruzione dell’autostima che attraversa la vita di ogni adolescente: «Sei così brutta, così rinsecchita – canticchiano – Non troverai mai marito» (p. 17). L’unico momento in cui Edith riesce a vivere una forma di auto-determinazione è rappresentato dalla sua grande passione, la danza:
Il maestro applaudiva. “Brava! Resta esattamente come sei adesso”. Mi sollevava da terra fin sopra la sua testa. Non era facile tenere le gambe completamente distese senza la spinta del pavimento, ma per un attimo mi sentivo come un’offerta, luce allo stato puro. “Edikte” diceva lui “Tutta l’estasi della tua vita dovrà provenire dall’interno”. Non ho ancora capito bene cosa intendesse, ma so di poter respirare, piroettare, scattare e piegarmi, so che i miei muscoli si allungano e si rinforzano, e ogni movimento, ogni posizione, sembrano urlare: Io sono, io sono, io sono. Io sono me. Io sono qualcuno. (p. 20)
Il destino ha, però, in serbo per lei un incontro che le consentirà di iniziare a sentirsi amata e apprezzata, quello con il suo primo amore, Eric, conosciuto al club del libro:
Dall’altra parte dell’aula c’è un ragazzo con i capelli rossi sporto in avanti, avido, serio. La sua mente sembra vivace e, quando parla, sento le farfalle nello stomaco. Ha una bella voce maschile, ponderata. Lo ascolto restando assolutamente immobile, ma dentro di me mi sento così viva. Il mio intero essere è un misto di calma ed eccitazione. Guardalo meglio, mi sussurra una voce interiore. Lui è speciale. (p. 29)
Eric, che ha qualcosa di speciale, sarà vera e propria “vitamina” per l’autostima della sua Edikte -“piccola Edith”- che con lui potrà finalmente essere pienamente se stessa e sentirsi unica: «[…] ecco qualcuno che vede chi sono, chi voglio diventare, e sorride» (p. 31). Ma il loro legame si ritrova a nascere e crescere «a dispetto della guerra», perché il contesto storico in cui si sviluppa è quello dell’Ungheria degli anni ’40, che comincia a diventare molto pericolosa per le famiglie di origine ebraica. E mentre Eric sogna di fuggire con la sua amata dall’Ungheria per ricostruire una nuova vita in Palestina, Edith inizia a provare sulla propria pelle gli effetti diretti della guerra quel giorno in cui, rientrata a casa, scopre che il padre – un umile sarto, persino “apolitico” – è stato portato via come prigioniero. E anche se dopo un po’ riuscirà a ritornare, tutte le loro vite (compresa quella di Eric), a breve saranno scosse dalla deportazione ad Auschwitz…
Arrivano che è ancora buio. Bussano forte alla porta, gridando. È mio padre a farli entrare, o si introducono a forza nell’appartamento? Sono soldati tedeschi o nylas? Non riesco a dare un senso ai rumori che mi destano dal sonno. (p. 51)
Fuori. Subito. È ora di fare un viaggetto dicono i soldati. Mia madre chiude la valigia e mio padre la solleva. (p. 53)
È l’amore per Eric che, sin da
subito, offre un’alternativa alla paura e allo stordimento generati dalla
situazione, e consente a Edith di appigliarsi con forza e tenacia alla speranza: «Eric, prego tra me, ovunque
ci stiano portando, aiutami a ritrovarti. Non dimenticare il nostro
futuro. Non dimenticare il nostro amore»
(pp. 53-54); e saranno proprio le parole con cui lui le rinnova i suoi
sentimenti, attraverso le assi del carro bestiame, «Non dimenticherò mai i tuoi occhi.
Non dimenticherò mai le tue mani»
a diventare la sua motivazione nei momenti di maggior sconforto (p. 57). L’amore
è, dunque, la forza per credere ancora nel futuro, anche se, in un
attimo, le vite di Edith e Eric hanno intrapreso un nuovo percorso. Il viaggio
verso Auschwitz è iniziato; da questo momento
della storia, la scrittura, che finora aveva “dipinto” con garbo e delicatezza
l’adolescenza di Edith, servendosi talvolta anche di una sottile ironia,
diventa gradualmente più schietta e diretta, specchio fedele di una realtà
tragica e disumana. È una scrittura che, a tratti, “sanguina”; una scrittura
che diventa testamento spirituale, terapia e catarsi.
Con l’arrivo ad Auschwitz l’incontro con
il Male è immediato e si personifica nella figura di quell’uomo che «oscillando un dito, come farebbe un
direttore d’orchestra» (p. 60) consegna ciascuno al proprio destino, il
dottor Josef Mengele, tristemente conosciuto come “Angelo della morte”; è
proprio lui a stabilire che la mamma di Edith non continuerà il percorso con le
proprie figlie…
Ed è sempre per lui – l’Angelo della Morte – che, quella stessa sera, ancora intontita dallo shock, Edith sarà costretta a danzare sulle note di Il bel Danubio blu: «Sto ballando all’inferno. Per non vedere il boia mentre decide i nostri destini, chiudo gli occhi. Da quel mondo lontano prima delle baracche mi giunge la voce del mio maestro di danza: Tutta l’estasi della tua vita dovrà provenire dall’interno» (p. 67). Edith ha paura, è traumatizzata per la perdita della madre ma, ancora una volta, la danza le dà la forza per autodeterminarsi, per sentirsi viva e per resistere. Magda rappresenterà l’altra sua grande motivazione alla sopravvivenza e il loro rapporto diventerà sempre più simbiotico; per lei – e insieme a lei – Edith inizierà ad apprendere tutte le leggi non scritte di Auschwitz, quelle regole fondamentali per strappare, ogni giorno, un giorno in più alla vita:
Se riesci a rubare un tozzo di pane alle guardie sei un’eroina, ma se lo rubi a una compagna sei un’infame, e muori. La competizione e la dominazione non ti porteranno da nessuna parte. La carta vincente è la cooperazione: sopravvivere vuol dire trascendere le tue necessità personali e dedicarti a qualcosa o qualcuno al di fuori di te. Per me quel qualcuno è Magda e quel qualcosa è la speranza di vedere Eric, un domani, quando tornerò libera. (p. 68)
In questa perpetua lotta per la sopravvivenza i momenti di paura, infermità, fame, annullamento psicologico vissuti insieme a Magda saranno tanti, così come i pensieri di morte, come quelli sopraggiunti, in attesa di una nuova selezione, dopo aver attraversato, a Mauthausen, la “scala della morte”, disseminata di cadaveri: «Arriva la notte e noi ci addormentiamo sulla scala. Perché hanno aspettato tanto a cominciare le selezione? Il mio coraggio vacilla. Moriremo domattina. Domattina moriremo. Mia madre sapeva cosa stava per succedere quando si è messa in fila con gli anziani e i bambini?» (p. 100).
Magda ha ormai perso la fede, così come
molti altri, ma le due sorelle continuano a resistere e, insieme, riusciranno, ormai
allo stremo, a superare anche l’esperienza del lager di Gunskirchen – quel luogo
terrificante dove Edith, guardando un uomo mangiare carne umana, arriva persino a chiedersi se possa esserne capace
anche lei: «Qui all’inferno guardo un uomo mangiare carne umana. Posso
riuscirci anch’io? Sarei capace di addentare e masticare la pelle che penzola
dalle ossa di un cadavere, se potesse salvarmi la vita? Ho visto carne violata
con una crudeltà al di là di ogni perdono» (p. 106).
Edith e Magda sono sopravvissute: qualcuno
sta cantando When the Saints Go
Marching In, un canto di vita, Liberazione; qualcuno sta urlando: “Chi è vivo, alzi la
mano!”.
Cerco di muovere le dita per segnalare che sono viva. Un soldato mi viene così vicino che vedo le macchie di fango che sono sui suoi pantaloni e sento l’odore del suo sudore. Sono qui, qui! Vorrei gridare, ma non ho voce. Passa in rassegna i corpi, sfiorandomi con lo sguardo senza fermarsi. Si tiene una pezza sporca sul naso e sulla bocca: se mi sentite, alzate una mano – dice – senza togliere la pezza da davanti al viso. Mi metto d’impegno a cercare le mie dita. (p. 108)
Edith e Magda rientreranno in
patria e potranno ricongiungersi alla sorella Klara, ma – com’era inevitabile –
non saranno più le stesse. Il fisico, la salute, le loro menti sono
stati fortemente provati e la loro vita, adesso, per potersi ricostruire, deve
andare oltre l’esperienza della malattia
e della morte, oltre gli affetti persi, oltre i ricordi terrificanti di
Auschwitz. Perché “andare oltre” è qualcosa che
devono a se stesse, ai loro genitori e a tutti coloro che dal lager non sono
più tornati, Eric compreso.
Se resti viva, devi batterti per qualcosa…
Nessuno potrà mai sostituire Eric, ma sarà
ancora l’amore - un amore ora più maturo e concreto – personificatosi in Béla, un
partigiano sfuggito ai nazisti nascondendosi in montagna, a sostenere Edith in
questo faticoso, ma necessario e doveroso percorso di rinascita: «[…] Abbiamo tirato su tre figli e siamo
diventati nonni, secondo Béla la nostra miglior vendetta contro Hitler» (p. 157). Perché «il passato no, non lo posso
cambiare, ma c’è una vita che posso salvare: la mia, quella che sto vivendo adesso,
questo momento prezioso» (p. 167).
Per la “Giornata della memoria”, dunque, lasciamo che i nostri cuori, e i nostri occhi, siano attratti dall’immagine di questa coraggiosa ballerina che, nonostante tutto, si eleva in punta di piedi sul filo spinato della morte.
Leggiamo La ballerina di Auschwitz, un inno struggente alla Vita.
Federica Malara
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