Paul, Jonas e Galel sono amici, un'amicizia nata in montagna la loro, su nella Baita di Paul, il rifugio ristorante, meta di varie escursioni. Amici che si vedono una volta all'anno, in estate, ma che sono legati da un sentimento fortissimo, profondo, solido e saldo come le rocce che li circondano. Jonas e Galel sono guide alpine (anche Paul lo è, ma da tempo ha deciso di dedicarsi al rifugio) e conducono gruppi di escursionisti su e giù per le valli di Lesiun e Tesor. La Baita è diventato il loro punto d'incontro. Senza mai dirsi quando, i tre amici si vedono e passano le ore che li accomunano tra silenzi e parole misurate. Durante l'inverno, giù a valle, in basso, i tre amici non si cercano, trascorrono la stagione fredda seguendo ognuno le proprie occupazioni abituali, chi in fabbrica, chi in negozio, chi in fattoria. Il tempo invernale non viene descritto dall'autrice, è come se non esistesse. Perché la testa dei tre uomini va alle vette, il loro pensiero è rivolto al momento in cui riprenderanno lo zaino e torneranno là dove il cielo è più vicino e la vita più bella. E quando giù le circostanze li portano a vedersi, tutto è diverso.
Si avvicina a Jonas, tutto contento, e anche Jonas gli va incontro. Ma all'improvviso si fermano, nello stesso momento. È che di colpo sono in imbarazzo. È come se si ricordassero che esistono al di fuori della Baita e quel fuori è meno bello. Non era previsto che si vedessero così. Sono davvero loro? L'abbronzatura è andata via, hanno un aspetto un po' goffo. I loro occhi sono più aperti, ma sembrano vuoti. Sembrano persone incomplete. Semplicemente perché nessuno dei due è nel posto in cui dovrebbe essere per sentirsi intero. Quel posto non è qui. (p. 101)
Quel posto è in alta quota, i tre ragazzi sono definiti dal luogo, il loro essere stesso è connaturato alla montagna, ne fa parte. Solo lì si percepiscono interi, compiuti, in pace con se stessi, si sentono perfettamente a proprio agio nel posto in cui devono essere, dove il loro corpo e la loro anima desiderano stare.
Intorno a loro gli escursionisti, i gruppi che fanno da contorno. C'è quella che ha mal di schiena, quello che ha le vesciche ai piedi e i cerotti che si staccano, c'è quello che cade e ruzzola giù dal pendio. Di questi ultimi, però, non sappiamo nulla; i protagonisti sono loro, Paul, Jonas e Galel. Eppure sarà proprio ciò che capita a un escursionista a cambiare la direzione della storia. Un incidente, apparentemente senza serie conseguenze, capita a Galel: la sua carriera di guida alpina è a rischio, come lo è la sua essenza stessa di montanaro, di camminatore. Una piega amara che costringerà Galel a fare i conti con sé stesso, con i propri limiti, con il proprio fisico. E l'amicizia fra i tre subirà una svolta. Dovrà trasformarsi, prendere atto che qualcosa è cambiato, adattarsi.
Questo romanzo è una scommessa. Gabriele Capelli Editore porta in Italia, in traduzione, un testo della letteratura svizzera contemporanea, pluripremiato in patria. Fanny Desarzens, classe 1973, è un'autrice diplomatasi in Arti visive alla Haute école d'art et de design di Ginevra e questa sua formazione si percepisce nel libro che è, innanzitutto, un romanzo di colori, il grigio della roccia, il verde del prato, il blu del cielo, il rosso, il giallo, il viola, il bianco dei fiori, il marrone della terra umida. Poi è un romanzo di odori e profumi, che si sprigionano fra le righe, l'erba che rinasce dopo il gelo invernale, le cipolle e il sedano della zuppa che riscalda la Baita di Paul e ristora gli escursionisti affaticati dalla salita. E poi è un romanzo di relazioni: Paul, Jonas e Galel sono descritti dalle loro emozioni, sempre un po' trattenute, com'è costume delle genti di montagna. Nelle loro conversazioni i silenzi hanno lo stesso valore delle poche parole scambiate. Anzi, forse di più. Dalle loro scarne conversazioni sulla panca al chiarore delle stelle il lettore percepisce tutta l'intensità del loro legame, che si esprime, al massimo, con un abbraccio timido, una pacca sulla spalla e una pagnotta consegnata per viatico. E mentre il cammino, per Jonas e Galel, riprende, anche l'andamento del romanzo sembra adeguarsi allo scorrere dei passi, al ritmo costante dell'andatura. Camminare, è questo il verbo magico del romanzo, quello attorno al quale tutto succede. Camminare in montagna, seguendo la propria andatura, lasciando che la mente costruisca pensieri e gli occhi guardino il paesaggio. Lo spezzarsi di questo ritmo, in seguito all'incidente occorso a Galel, imprime una svolta potente nella storia.
Oltre ai tre ragazzi, la protagonista principale del romanzo è la montagna. Vista nel suo paesaggio e nello scorrere lento, e allo stesso tempo veloce, delle stagioni.
E a succedere è soltanto il tempo. Poi torna l'estate. Si risale. Ognuno ritrova la propria capanna. E si aprono le porte (p.65).
E tutto ricomincia. La montagna diventa così un luogo eterno che porta gli uomini al cospetto di se stessi. Chiunque ami camminare in montagna conosce la sensazione del pensiero che a un certo punto segue il ritmo del passo e si lascia andare costruendo mondi, è il momento in cui le riflessioni sono più profonde, quando anche le decisioni più difficili sembrano trovare una risposta chiara. Un momento catartico e irripetibile perché il silenzio della fatica porta a diradare le conversazioni e a concentrarsi su se stessi.
Lo stile del libro ripercorre questi passi, la scrittura è scarna, essenziale, senza inutili fronzoli, ma la contempo poetica e quasi impalpabile in certe notazioni paesaggistiche. Anche i dialoghi sono ridotti al minimo, e non potrebbe essere diversamente, ma lasciano trasparire molto più di quello che dicono.
Galel è la storia di un'amicizia maschile, raccontata da una voce femminile, e che si dipana al cospetto della montagna, il personaggio femminile più forte del romanzo.
Sabrina Miglio
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