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«E Amelia ripiombò come sempre nella sua infanzia indifesa e abitata dal terrore»: i Troubles, il caos, la frammentarietà dentro e fuori dalle pagine. "Amelia", di Anna Burns

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Amelia
di Anna Burns
Keller, ottobre 2024

Traduzione di Elvira Grassi

pp. 384
€ 19 (cartaceo) 

Sembrava un po’ troppo. Doveva esserselo inventato, altrimenti come mai nessun altro aveva sentito alcunché al riguardo? Certo, avvisaglie c’erano state. Delle avvisaglie tutti erano al corrente. Ma le avvisaglie riguardavano Derry, che era un’altra terra, un altro pianeta. Cosa c’entrava Derry con Belfast e con loro? (p. 12)

Per la giovane Amelia i Troubles iniziano un giovedì pomeriggio: è un’amica a raccontare a lei e al resto della banda quello che a quanto pare non sta accadendo solo a Derry ma anche nella loro Belfast, ad Ardoyne, il quartiere dove vivono. Le «avvisaglie» diventano sempre più concrete, la violenza permea il quotidiano e così sarà per decenni. Anna Burns, di cui pochi mesi fa Keller ha portato in Italia questo suo romanzo d’esordio, Amelia, per la traduzione di Elvira Grassi, è un testo che rifugge le etichette, potente e spiazzante, che mescola humor nero, dramma, orrore, elementi del gotico perfino, in una stratificazione di tematiche e suggestioni da cui tuttavia riesce a non farsi sopraffare. È un «romanzo del trauma», come l’ha efficacemente definito la sua traduttrice, Elvira Grassi, un trauma che non è solo tema ma parte integrante della narrazione e che si lega, dunque, a scelte stilistiche ben precise. Non è facile, perciò, addentrarsi nella storia e nella scrittura di Burns, in questo esordio che già rivela molto dello stile in divenire e che troverà poi compimento nell’acclamato Milkman – sempre tradotto da Grassi, in precedenza, e uscito per Keller nel 2020 – con il quale l’autrice vinse il Man Booker Prize.

Un romanzo complesso, sperimentale, che obbliga a mettere da parte il filtro del realismo: è come se la brutalità surreale dei Troubles non potesse esprimersi sulla pagina per mezzo di narrazioni convenzionali ma fosse necessario trovare un altro modo per raccontare la violenza, il caos, tutto quello che comportano nella vita di chi ci cresce in mezzo tentando di sopravvivere, di diventare adulto. Ne parlo con Grassi e le sue parole diventano una guida dentro il testo e le sue molteplici implicazioni:

Sì, concordo con te quando dici che la brutalità dei Troubles non poteva essere espressa nei modi convenzionali. Amelia, così come Milkman, è un “romanzo del trauma”. E il trauma non si può raccontare nelle forme tradizionali. Burns ricorre al metaforico, a elementi gotici, all’umorismo per sottolineare la natura farsesca di certe situazioni, alla prospettiva inaffidabile, lacunosa e incoerente dei suoi personaggi traumatizzati. Faccio un passo indietro, dunque, torno a Milkman, la cui pubblicazione in Italia è precedente a questo romanzo e con Grassi mi soffermo a riflettere sul lavoro di traduzione, domandandomi se e quanto aver già lavorato su Milkman abbia influito in qualche modo nella traduzione di Amelia: Aver tradotto Milkman mi ha aiutata a entrare con più immediatezza e profondità nel mondo e nello stile di Amelia. Milkman è stata la mia porta d’ingresso nella vita di Amelia Lovett. Il contesto politico e geografico (anche se niente è nominato in Milkman, tutto è chiarissimo), la normalizzazione dell’incubo del conflitto da parte dei giovani, le dinamiche familiari animose, i comportamenti e il modo surreale – oserei dire “beckettiano” – in cui i personaggi dialogano tra loro sono gli stessi. A legare i due romanzi c’è anche l’uso massiccio del simbolismo, del grottesco e del dark humour e l’uso di un linguaggio che muta al mutare degli eventi narrati. In Amelia la voce della protagonista si sporca a mano a mano che i suoi disturbi psichici si complicano – specchio dell’intensificarsi del conflitto – pur mantenendo una patina infantile e naïf. In Milkman lo stile è più raffinato, più consapevole forse, ma quel che è simile è l’aspetto della modellabilità del linguaggio; in entrambi i romanzi la scrittura è ricorsiva, frenetica, spaesante e si colora di vari registri: a volte è letteraria, altre è colloquiale, o infantile, altre beffarda. C’è pluralità di voci in tutte le opere di Burns, e di voci nelle voci. In Amelia c’è inoltre l’alternanza di terza persona e prima persona che inevitabilmente porta con sé una frammentazione della struttura e del fraseggio, una minore compattezza e un minore effetto incantatorio della prosa rispetto a Milkman.

Questa pluralità della narrazione è ancora una volta eco di un trauma che Burns indaga nella sua quotidianità, abbandonando la retorica, per restituire al lettore il caos e la brutalità della guerra civile che ha sconvolto l’Irlanda del Nord per decenni, entrando nelle case, nelle famiglie, nelle persone e nell’idea stessa di individuo e di futuro. Una violenza che diventa quotidiano, cadaveri che quasi non fanno neanche più notizia: «Era il 1971, e si verificavano in numero massiccio crimini apparentemente ingiustificati, in particolare sotto forma di cadaveri che alcuni giornali, nelle ultime pagine, diligentemente segnalavano. (p. 31).

I corpi però sono un elemento centrale nel romanzo di Burns: sono i cadaveri disseminati nel corso della vicenda, sono i corpi che scompaiono; corpi in guerra uno contro l’altro e, nel caso di Amelia, in guerra contro sé stessi, nel disperato tentativo di arginare il caos in cui sono immersi tutti loro punendo il proprio corpo, privandolo del cibo, abusando di alcol e droghe. No bones è il titolo originale del romanzo e le implicazioni di queste parole aprono ulteriori squarci nella narrazione:

Amelia è un ritratto senza filtri di un mondo efferato, e il titolo originale rimanda a questo concetto (in uno dei significati di «no bones») perché riprende il modo di dire inglese “to make no bones about it” che significa “parlare apertamente di qualcosa senza usare mezzi termini” – la narrazione infatti non “fa mistero” della portata della violenza e delle sue conseguenze mentre viene ricostruita dalla memoria frammentata di Amelia. Ma il significato primario è “nessun corpo”, con riferimento ai corpi dei morti durante il conflitto, alle ossa perdute, mai trovate, della storia, all’assenza di commemorazione dei morti – Amelia non sa che fine abbiano fatto i corpi del fratello Mick, dei genitori, degli amici, e sopprime i ricordi della morte dei suoi cari e delle loro esperienze di premorte. Questi morti però ritornano in forma di fantasmi, ritornano a infestare il presente come se fossero esseri fisici reali, riportano il passato nel presente. Intitolarlo Amelia è stata una scelta della casa editrice. Ma in fondo, anche nei capitoli in cui Amelia non compare, ci sono “altre Amelie”, varie declinazioni di lei – per esempio Vincent e Mary Dolan. Amelia è l’incarnazione del trauma collettivo. C’è un capitolo del libro intitolato No Bones (dove tornano i fantasmi dei morti) e lì invece il significato letterale di “nessun corpo” è rimasto intatto.

Ogni cosa in questo romanzo è volutamente esagerata e supera i confini prestabiliti di realtà e percezione; Amelia è un romanzo assurdo, grottesco, spiazzante e spietato che richiede al lettore uno sforzo. Ecco, dunque, che se abbandoniamo per un momento il metro di giudizio del reale con cui siamo abituati a orientarci dentro ai testi, l’opera di Burns può davvero esprimere tutto il suo potenziale e in quel caos ordinato e in alcune debolezze si riesce a intravedere già la scrittrice in divenire. Il disagio, la dipendenza, gli abusi, i crolli nervosi, sono specchio di una realtà in cui non è più soltanto la famiglia a essere disfunzionale ma la società intera, dove crescere, tentare di diventare adulti e sopravvivere alla violenza. In fondo Amelia è la storia di una bambina, poi ragazza e donna che tenta proprio di sopravvivere e ci si interroga con lei su come si diventa adulti quando si cresce immersi nella violenza. E ci si interroga, ancora, sulla tensione tra restare e andarsene, quel male d’Irlanda che tante narrazioni hanno sempre saputo rappresentare in momenti storici e situazioni diverse.

È una lotta, dentro e fuori la pagina. È il caos che non riesce a trovare ordine e allora anche la narrazione non può fare altro che raccontarlo in questo modo, mescolando registri diversi, alternando la prima e la terza persona, indugiando sul grottesco, sfumando i confini tra reale, immaginazione, allucinazione, in un parallelo con l’assurdità del quotidiano. Una volontà di sperimentazione e superamento dei confini che si inserisce perfettamente nella scena letteraria irlandese «molto vitale e fiorita», dove le scrittrici soprattutto non temono di sporcarsi le mani. Non resisto, dunque, a chiedere ancora uno spunto a Elvira Grassi, in riferimento alla letteratura irlandese contemporanea:

La scena letteraria irlandese contemporanea è molto vitale e fiorita, grazie al sostegno dell’Arts Council e di Literature Ireland, che si occupa della promozione internazionale della letteratura irlandese, e grazie alle tante riviste indipendenti dove la maggior parte delle scrittrici e degli scrittori si fanno le ossa. Credo che in Irlanda si guardi più al valore dei libri che a chi li scrive, e mi sembra che non si facciano distinzioni di genere come in Italia, dove pare quasi che le opere di scrittrici e scrittori appartengano a categorie separate. Per rispondere alla sua domanda, alcune scrittrici di talento le conosciamo già perché pubblicate in Italia: non mi riferisco alle “established” Enright, McBride, Keegan ecc., ma a Elaine Finney, Sara Baume, Louise Kennedy, Wendy Erskine, Jan Carson; altre le conosceremo presto, o le conosceremo meglio: penso a Michelle Gallen, Caitríona Lally, Nicole Flattery, Caoilinn Hughes, tutte con uno sguardo obliquo e una grande forza letteraria, e tutte in dialogo con la nota ricchissima tradizione letteraria.

Approfondimento e intervista a cura di Debora Lambruschini