Traduzione di Lorenzo Flabbi
pp. 81
€ 10,00 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)
È una foto color seppia, ovale, incollata sul cartone ingiallito di un libretto, mostra un neonato di tre quarti seduto in equilibrio su cuscini decorati, sovrapposti. Ha indosso un camicino ricamato, chiuso da una sola asola a cordoncino, ampio, con un fiocco fissato poco dietro la spalla, come un grosso fiore o le ali di una farfalla gigante. Un bebè magrolino, lungo lungo, con le gambe aperte, tese, che arrivano a toccare il piano del tavolo. Arrotolato sulla fronte bombata ha un boccolo di capelli scuri, sgrana gli occhi con un’intensità quasi divorante. Sembra agitare le braccia, spalancate come quelle di un bambolotto. Si direbbe che stia per tirarsi su. In calce alla foto, la firma del fotografo - M. Ridel, Lillebonne -, le cui iniziali intrecciate ornano anche l’angolo in alto a sinistra della copertina, molto sporca e mezzo sfaldata. Quando ero piccola credevo si trattasse di me, doveva avermelo detto qualcuno. Non sono io, sei tu. (pp. 9-10)
Quando un’autrice si ritrova a essere tra le più lette e acclamate del nostro tempo, peraltro insignita del Premio Nobel per la Letteratura 2022, diventa forse fin troppo scontato dar spazio principalmente alle sue opere maggiori - a livello di critica e di pubblico - eppure, così facendo, nel caso di Annie Ernaux, si rischierebbe di lasciare in ombra un tassello fondamentale riguardante ciò che, per certi versi, si colloca addirittura all’origine stessa della sua scrittura. L’altra figlia, infatti, non può vantare né la fama né l’impatto collettivo, financo di stampo sociologico, che caratterizza molti altri suoi libri, ma squarcia il velo su un episodio decisivo della sua vita, ancora una volta intimamente legato a quel processo di trasposizione universale del dato autobiografico che costituisce la cifra distintiva di questa scrittrice.
Il testo si configura come una sorta di lettera, a prima vista rivolta a una sorella mai conosciuta che non avrà facoltà di leggerla (ma, più nel profondo, non propriamente indirizzata ad alcun destinatario se non all’atto medesimo della scrittura), dedicata a ripercorrere le conseguenze di quando, a soli dieci anni, nella rarefatta calura di «un tardo pomeriggio domenicale» (p. 14), arriva a comprendere, suo malgrado e d’improvviso, che certe parole, nel momento in cui vengono pronunciate e recepite, prendono corpo in una maniera tale da non poter lasciare più loro la possibilità di cadere nell’oblio. Ascoltare di nascosto la propria madre mentre riferisce a una conoscente della presenza di una prima figlia, morta di difterite all'età di sei anni, per la piccola Annie non può che segnare lo spartiacque che fa crollare il suo intero castello d’infanzia: come elaborare un lutto, fino a quel momento ignorato, che non può appartenerle, ma che interessa così da vicino la ragione della sua stessa esistenza?
Secondo l’anagrafe sei mia sorella. Porti anche il mio stesso cognome, il mio «nome da signorina», Duchesne. Sul libretto di famiglia dei genitori, quasi a brandelli, nella sezione Nascite e Decessi dei Figli nati nel Matrimonio figuriamo una dopo l’altra. […] Ma tu non sei mia sorella, non lo sei mai stata. Non abbiamo giocato, mangiato, dormito insieme. Non ti ho mai toccata, abbracciata. Non conosco il colore dei tuoi occhi. Non ti ho mai vista. Sei senza corpo, senza voce, sei giusto un’immagine piatta su qualche foto in bianco e nero. Non ho alcun ricordo di te. Quando sono nata eri già morta da due anni e mezzo. Tu sei la figlia del cielo, la bambina invisibile di cui non si parlava mai, la grande assente da tutte le conversazioni. Il segreto. (p. 12)
Deceduta il giovedì santo del 1938, questa sorella-fantasma dall’esistenza taciuta, risulta quindi avvolta dall’aura sacrale di una martire - «Tra loro e me, da quel momento ci sei tu, invisibile, adorata. Vengo scostata per farti spazio. Respinta nell’ombra mentre tu aleggi lassù nella luce eterna. Vengo paragonata, io che ero l’incomparabile, la figlia unica» (p. 21) - mentre si insinua tra gli abissi della memoria e della coscienza di chi, venuta al mondo appena due anni dopo, sente di aver preso un posto fin dall’inizio destinato a lei e, dunque, anche all’“urgenza” della sua scrittura, al punto da farle chiedere «Che ti stia scrivendo per resuscitarti e ucciderti un’altra volta?» (p. 24).
Perché bisognava pure che trovassi un modo di barcamenarmi in quella misteriosa incoerenza: tu, la figlia buona, la piccola santa, non sei stata salvata, io, un demonio, ero ancora viva. Più che viva, miracolata. Bisognava dunque che tu morissi a sei anni affinché io potessi venire al mondo ed essere salvata. Orgoglio e senso di colpa nell’essere stata scelta per vivere, in un disegno indecifrabile. Forse più orgoglio della sopravvivenza che senso di colpa. […] Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io possa scrivere, fa una grande differenza. (pp. 35-36)
Se nella ricostruzione dell’autrice l’esistenza dell’una preclude e, anzi, motiva quella dell’altra, a escluderle vicendevolmente sembrano essere anche i loro stessi genitori - soprattutto per mezzo del silenzio «Quel racconto sorpreso per caso è stato il primo e l’ultimo. Non mi hanno mai parlato di te, né l’uno né l’altra» (p. 44) - quasi come se la coppia ritratta in una vecchia istantanea (analogamente a quella che testimonia l’esistenza dell’altra figlia) non fosse la solita e da quello stesso sangue fossero state generate due figlie uniche.
Su una foto di prima della guerra, non datata, lui le cinge le spalle e sorride. Lei indossa un vestito con grandi pois e un colletto di pizzo chiaro, una spessa ciocca di capelli le ricade sugli occhi. Assomiglia ancora alla sposa schietta e sfrontata del 1928. Non le ho mai visto né quel vestito, né quella acconciatura. La donna dei tuoi tempi io non l’ho mai conosciuta. All’inizio della mia epoca, su alcune foto in cui compaio anch’io scattate probabilmente nella primavera del 1945, benché sorridano, in loro non c’è più né gioventù né spensieratezza, bensì un che di affievolito. Hanno i volti segnati, appesantiti. Lei indossa un vestito a righe che le ho visto a lungo. Porta i capelli messi in piega con i bigodini. Hanno vissuto l’Esodo, l’Occupazione, i bombardamenti. Hanno vissuto la tua morte. Sono genitori che hanno perso un figlio. Tu sei lì, tra di loro, invisibile. Sei il loro dolore. […] Ti devono aver detto «quando sarai grande», illustrato ciò che avresti potuto fare, insegnato a leggere, andare in bicicletta, fare da sola il tragitto fino a scuola, ti hanno detto «l’anno prossimo», «quest’estate», «presto». Una sera, al posto del futuro c’è stato soltanto il vuoto. (pp. 43-44)
Ma a ben vedere, in questo gioco asimmetrico di mancata ricomposizione del nucleo familiare, chi è davvero l’altra figlia? Quella la cui ingombrante presenza/assenza ritorna dal passato anche dopo sessant’anni o la consapevole fuggitiva, viva e presente, ma volutamente assente e distante da quel mondo di provincia dal quale ha scelto di emanciparsi tanto in vita quanto in morte?
Il 7 novembre 1945, tre settimane dopo essere ritornati a Yvetot, hanno comprato una concessione cimiteriale accanto a te. Lui vi è stato deposto per primo, nel 1967, lei diciannove anni dopo. Io non sarò sepolta in Normandia, vicino a voi. Non l’ho mai desiderato né immaginato. L’altra figlia sono io, quella che è fuggita lontano da loro, altrove. Tra qualche giorno andrò sulle tombe, come sempre per Ognissanti. Non so se questa volta avrò qualcosa da dirti, se sarà il caso di farlo. Se mi vergognerò o se sarò fiera di averti scritto questa lettera, intrapresa sulla spinta di un desiderio che ancora non mi è chiaro. Forse ho voluto saldare un debito immaginario dandoti a mia volta l’esistenza che la tua morte mi ha dato. Oppure farti rivivere e rimorire per liberarmi di te, della tua ombra. Sfuggirti. Lottare contro la lunga vita dei morti. Questa lettera - è evidente - non è destinata a te, e tu non la leggerai. Saranno altri a riceverla, dei lettori, che mentre scrivo sono invisibili quanto lo sei tu. Eppure un residuo di pensiero magico dentro di me vorrebbe che, in maniera inconcepibile, analogica, questa lettera ti raggiungesse come la notizia della tua esistenza mi ha raggiunta una domenica d’estate, forse la stessa in cui Pavese si suicidava a Torino in una camera d’albergo, tramite un racconto di cui a mia volta non ero la destinataria. (pp. 80-81)
In questo senso, soltanto l’esercizio della letteratura, quella praticata con la sentita lucidità dell’autrice e con l’appassionato trasporto della lettrice, può “restituire” alla scrittrice - che è stata quella bambina casualmente travolta dall’inaspettata e dolorosa rivelazione - la presenza di una sorella che esiste soltanto nell’assenza: «La tua esistenza passa solo attraverso l’impronta che hai lasciato sulla mia. Scriverti non è altro che fare il giro della tua assenza» (p. 56).
Ciò che sto facendo qui è rincorrere un’ombra. Invece che in me ti dovrei forse cercare fuori, nelle ragazze che avrei voluto essere, quelle studentesse più grandi […]. O nelle scene di romanzi e film, nei quadri che mi hanno turbata senza sapere perché, mai dimenticati. Più probabilmente è là dentro che ti devo cercare, in quel repertorio personale dell’immaginario, illeggibile per chiunque altro, per scoprirti tramite un lavoro che nessuno può vantarsi di fare al posto nostro. Già so che ci sei tra le pagine di Jane Eyre, nella saggia e devota Helen Burns, amica della stessa Jane e di poco più grande di lei, consunta dalla tubercolosi. Jane, miracolosamente immune dal morbo che sta decimando le allieve, una sera va a trovarla nell’infermeria del sinistro collegio di Brocklehurst. La malata invita l’amica a scaldarsi nel suo letto.«Sei venuta a dirmi addio? Arrivi appena in tempo.»«Te ne vai, Helen? Ritorni a casa?»«Sì, nell’anelata dimora, per il mio ultimo soggiorno.»«No, no, Helen! […] Dove vai? Lo vedi? Lo sai?»«Credo, ho la fede, vado a Dio.»«Dov’è Dio? Che cos’è Dio?»Al mattino strappano Jane, addormentata, dalle braccia di Helen, morta. (pp. 65-67)
L’altra figlia è forse l’opera di Annie Ernaux in cui il dettaglio privato e autobiografico risulta meno propenso ad adattarsi all’universalità del vissuto, eppure, in nemmeno un centinaio di pagine, l’autrice riesce a intessere una tela narrativa che, a cavallo tra la lettera e il diario, conservando il vigore affilato proprio della sua scrittura, asciutta come una cronaca, si apre al calore dell’emotività lirica, fatta di pause e silenzi, di verità scomode e tenere nello stesso tempo. Per certi versi, si tratta di un libro dal contorno piuttosto inedito rispetto al suo solito, ma in definitiva rimane saldamente ancorato a quell’atto della scrittura come mezzo di riappropriazione di significato dell’esperienza umana che la rende così grande.
Chiara Tolomei
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