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“Uno dei luoghi più strani al mondo”: a Colditz con i "Prigionieri del castello" di Ben Macintyre

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Prigionieri del castello
di Ben Macintyre
Neri Pozza, novembre 2024

Traduzione di Alessandra Manzi

pp. 432
€ 24,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)

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In una antica fortezza medievale, arroccata su una collina a strapiombo sulle vallate di Sassonia, durante la Seconda guerra mondiale i tedeschi istituirono il campo di Colditz, un Sonderlager che era anche una prigione di massima sicurezza, destinata ad accogliere ospiti “speciali”, per lo più ufficiali stranieri noti per il loro spirito riottoso e antitedesco, per la loro tendenza a creare problemi e a tentare la fuga da qualsiasi struttura detentiva in cui fossero prima passati. La storia di questi personaggi, dei loro innumerevoli tentativi di evasione – solo sporadicamente riusciti, ma documentati da una serie cospicua di fonti di vario genere –, ha dato vita a una vera e propria mitografia. In Prigionieri del castello, Ben Macintyre vuole decostruire il mito, rileggerlo in un’ottica di complessità. Colditz rappresentava infatti un vero e proprio microcosmo, un teatro dell’umano in tempo di profonda crisi, «un crogiuolo di peculiarità e di eccentricità» (p. 16) che poco si presta alla lettura uniformante, retorica ed eroica, che se ne è voluta dare.

Colditz era una miniatura della società prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Eppure, era anche assai più complessa, perché i detenuti costituivano una comunità coesa, ma al tempo stesso presentavano gravi divisioni quanto a classe sociale di appartenenza, scelte politiche, orientamenti sessuali, distinzioni di razza. […] Molti di loro sono stati finora esclusi dalle storie su Colditz, perché non rientravano nello stereotipo dell’ufficiale alleato, bianco e maschio, il cui solo proposito era la fuga. Inoltre, circa la metà della popolazione nel castello era tedesca. […] Anche al loro interno erano presenti individui molto differenti, alcuni dei quali in possesso di tratti di umanità e di un profilo culturale che li distanziavano profondamente dallo stereotipo del bruto nazista. (pp. 15-16)

Da questo proposito ambizioso, nasce un’opera monumentale, che non deve però intimorire. Il tono della scrittura è infatti così affabile, così puntellato dall’ironia, così abile nel disseminare contenuti informativi di carattere storico-sociale all’interno di una prosa per lo più narrativa che la lettura fluisce rapida e avvincente come in un romanzo d’avventura. Nel seguire di volta in volta, in una scansione che tiene conto degli anni di guerra, dal 1940 al 1945, le vicissitudini e le stravaganti trovate dei diversi personaggi che abitarono Colditz, si configura un intreccio articolato, in cui è facile affezionarsi ai fuggitivi e fare il tifo per loro, o attendere trepidanti di capire cosa inventeranno per mettere i bastoni tra le ruote ai carcerieri. 


La dialettica tra i tentativi di fuga degli ufficiali prigionieri e quelli altrettanto convinti dei carcerieri per impedirli si configura come una sorta di gioco delle parti, il “guardie e ladri” della tradizione, tanto che spesso i tedeschi, pur già informati di alcuni progetti di evasione, li lasciano procedere per cogliere i fuggiaschi in flagrante («“Lasciateli fare” aveva ordinato l’Hauptmann Priem. “Li terrà occupati per un bel po’ e li renderà felici”», p. 81). Non si deve dimenticare che, secondo la Convenzione di Ginevra, il più delle volte rispettata nel campo anche grazie a un’attenta supervisione degli organi di controllo svizzero (con una menzione speciale al serio e precisissimo Rudolf E. Denzler) gli ufficiali, a differenza dei loro attendenti, non erano tenuti a lavorare per la Germania. 


L’elaborazione di continui piani quindi, anche se la maggior parte si rivela fallimentare, è per i carcerati un modo per sfogare l’energia repressa e la frustrazione derivante dalla detenzione, per ingannare la noia e tenere allenata la mente, nonché per portare avanti la propria personale forma di resistenza al nemico in uno dei pochi modi possibili date le circostanze. Un altro, ugualmente praticato, e con maggior successo, è quello di passare informazioni ai servizi segreti britannici, celando messaggi nelle missive dirette a ipotetici famigliari attraverso complessi codici cifrati. 

In patria nasce anche un reparto dedicato, l’MI9, allo scopo di agevolare la fuga dei detenuti, intravvedendo in questa attività una importante risorsa militare per tenere occupati i tedeschi e, al contrario, mantenere alto l’umore dei prigionieri. Se la necessità aguzza l’ingegno, vengono prestati alla causa personaggi stravaganti, come Christopher Clayton Hutton, detto Clutty, «il più prodigioso inventore di dispositivi di fuga della storia» (p. 145), la cui straordinaria creatività ebbe esiti inaspettati, e che travalicarono di molto le mura di Colditz: «la produttività dell’MI9 fu a dir poco prodigiosa. […] Dei 35mila soldati che evasero dai campi di prigionia o sfuggirono alla cattura, quasi la metà aveva con sé una delle mappe di Hutton» (p. 148).


La ricerca di Macintyre non si limita ai piani di fuga, ma esplora molti altri aspetti della vita del campo: i diversi caratteri nazionali, le differenze di classe e il modo in cui influenzavano la prigionia, lo sport, ma anche la sessualità e le dinamiche psicologiche che si attivavano all’interno dell’Oflag IV-C, e che in alcuni casi potevano degenerare nello psichiatrico, dalla depressione ai disturbi ossessivo compulsivi o da stress post-traumatico. Serviva infatti una grande resistenza interiore, una ferrea determinazione, per non lasciarsi andare alla stanchezza e al fluire sempre uguale delle giornate. La completa dedizione alla causa della fuga, adottata da diversi degli ufficiali prigionieri, richiedeva alcuni inevitabili sacrifici, come la disponibilità a nascondere beni preziosi in pertugi corporali più o meno probabili, ma soprattutto l’atarassica ammissione che gli sforzi di mesi avrebbero potuto essere vanificati in pochi istanti. Anche per questo vengono creati nel campo organismi di coordinamento internazionale e ogni progetto deve essere attentamente vagliato e approvato dai superiori di grado di ogni specifica nazionalità.


Bisogna guardarsi però dal pensare che protagonisti del volume siano solo i detenuti. Nell’affresco complesso che viene tracciato, anche i carcerieri trovano un loro spazio, a partire dall’infaticabile Leutnant Reinhold Eggers, ex insegnante e veterano della Prima guerra mondiale, patriota tedesco ma non nazista, anglofilo convinto, e convinto sostenitore dell’applicazione dei metodi educativi all’ambito del campo: «Eggers sapeva bene che quando tutti gli studenti problematici vengono riuniti nella stessa classe, questi fanno subito lega, si spalleggiano a vicenda e presto la situazione diventa fuori controllo» (p. 34). È lui a presiedere il monitoraggio e le operazioni che sventano molti dei tentativi di fuga, a correggere con sempre maggior precisione e dispiegamento tecnico le falle nel sistema di sicurezza. Lui documenta ogni azione e ne raccoglie prove e materiali, fino a istituire all’interno del carcere un vero e proprio museo dedicato, e ad essere chiamato come consulente presso altri Lager tedeschi. La sua costante vigilanza è il principale motivo per cui «ogni tentativo di fuga, che riuscisse o meno, rendeva quelli successivi sempre più difficili» (p. 190). L’inasprirsi dei controlli non è però inizialmente una ragione sufficiente per spingere i prigionieri a desistere, anzi, ne stimola sempre di più l’ingegno.


Lo studio di Ben Macintyre, con il suo continuo passaggio dal campo ristretto a quello più ampio, riesce a destabilizzare l’idea, generalmente diffusa, di una sostanziale staticità all’interno dei campi di prigionia tedeschi. Se il tedio, la noia, la routine non mancarono certo neanche a Colditz, come alcune pagine non mancano di sottolineare, certo è però che in taluni momenti sottotraccia ci fosse tutto un brulicare di idee e azioni, da ambo i lati dei rapporti di potere.


Dalla trattazione emergono figure imperfette, ma dallo straordinario idealismo, come quella di Jane Walker, agente dei servizi segreti britannici di stanza in Polonia, dove aiutava inosservata la Resistenza locale, nonché gli ufficiali britannici in fuga; o ancora Michael Sinclair, la “Volpe rossa”, il cui slancio ostinato alla fuga da Colditz sfiorava la cifra del fanatismo cieco e già prefigurava un destino grande, fosse esso glorioso o tragico («Sembrava che stesse conducendo una crociata personale contro tutta l’Europa occupata da Hitler», p. 175); o ancora Douglas Bader, nome in codice Dogsbody, pilota disabile dell’aviazione britannica e volto principale della propaganda inglese in guerra, ma anche uomo dal carattere terribile e incorreggibile, capace di grandi contraddizioni, o Gilles Romilly, il nipote comunista di Winston Churchill, prigioniero d’eccezione nel castello e fondatore del “Club degli Eminenti”.


Il mito di Colditz ha sempre voluto mettere a fuoco storie di coraggio in tempi oscuri, costituire un modello positivo di eroismo, di orgoglio nazionale e di resistenza al nemico. Il romanzo-saggio di Macintyre esplora tuttavia anche i fianchi in ombra di queste imprese, non dimentica mai che il tempo di guerra è prima di tutto un tempo spietato; non tutte le vicende narrate pertanto sono a lieto fine, e i finali dolorosi non sono mai addolciti, mai preparati, colpiscono duramente le aspettative del lettore, e lo accompagnano poi nel loro superamento, attraverso i ritmi serrati di una narrazione che pare un flusso inarrestabile.

A differenza dei detenuti comuni, per i prigionieri di guerra il giorno della libertà non era stabilito da un giudice o dalla giuria di un tribunale, bensì dagli eventi che si svolgevano nel lontano teatro delle operazioni belliche. La fine della reclusione era un appuntamento imprevedibile che si sarebbe potuto prospettare presto, oppure tardi, oppure addirittura mai. (pp. 204-205)

È solo tardivamente che la Wehrmacht si rende conto dell’inopportunità di concentrare tutti i ribelli in un unico luogo, facendo di Colditz a partire dal 1943 un campo di prigionia per soli britannici o statunitensi. Questo ne cambia la configurazione, ma non la natura. Gli alleati internazionali, prima di essere trasferiti, lasciano infatti in dono ai colleghi del Commonwealth un ricco bagaglio di competenze e beni materiali, primo fra tutti Arthur II, una radio nascosta sintonizzata sulla BBC. Quello che muta semmai, mano a mano che arrivano notizie sul prosieguo della guerra e la progressiva perdita di terreno della Germania, è la volontà dei detenuti, che hanno parzialmente perso lo slancio della prima ora e, in alcuni casi, ritengono di aver già dato abbastanza alla patria. Mutano anche, e ben più tragicamente, gli equilibri di potere all’interno dell’area di dominazione tedesca: alle sconfitte ripetute dell’esercito corrisponde un dilagare della violenza incontrollabile delle forze naziste, dalla Gestapo alle SS e alla SP, che risultano molto poco tolleranti nei confronti degli insubordinati (come dimostra il caso della “Grande Fuga”) e del tutto indifferenti invece ai vincoli della Convenzione di Ginevra. La tragedia della Germania tutta, colpita dalla crisi e dalla disfatta militare, si abbatte sulle guardie come sui prigionieri, e la prospettiva sempre più vicina di una possibile vittoria non basta a placare in questi ultimi i morsi della fame. Questi, uniti a un rischio sempre crescente, rendono i tentativi di evasione meno frequenti, e anche poco convenienti. Al tempo stesso, possono dare vita a gesti estremi e disperati, come l’ultima, drammatica corsa della “Volpe rossa” oltre il filo spinato.


Nell’ultima parte del volume, tanto la Storia si rivela imprevedibile e clamorosa nelle sue svolte impreviste che il ritmo si impenna e il tono si fa più romanzesco. È più difficile, qui, uscire dalla polarità fiabesca del bene contro il male, degli eroi minacciati, del pericolo che incombe sull’umanità tutta. Il volume si configura come un inno alla resilienza, alla creatività, alla capacità di cooperare e di trarre risorse dalle avversità proprie dell’umano, come nel caso dell’ultimo grande piano elaborato all’interno dell’Oflag IV-C:

L’aliante era più di un elaborato strumento di fuga. Si trattava di un sogno, un volo quasi fantastico che poteva far correre l’immaginazione dei prigionieri ben oltre le mura del castello. Il velivolo era un oggetto di fede, un bellissimo simbolo di speranza rivestito di percalle blu e bianca, costruito con doghe del letto rubate e tenuto assieme da una poltiglia di miglio ammuffita. (p. 320)

È proprio in queste pagine che si dispiega maggiormente l’abilità di Macintyre, che mantiene un approccio razionale, pur se coinvolto, che procede per continui confronti tra la vita nel mondo esterno e la realtà di Colditz, dove si prefigurano già gli scontri ideologici che di lì a poco di concretizzeranno nella Guerra fredda. La componente intellettuale è del resto, da sempre, un elemento fondamentale della vita del castello, dove dai prigionieri vengono allestiti spettacoli, condivise letture, organizzate conferenze.

Molti di coloro che risiedono a Colditz mettono per iscritto la loro esperienza, fanno della narrazione e della testimonianza prima uno strumento di sopravvivenza, poi in alcuni casi anche una professione. Da questo origina il successo popolare della vicenda, cui sono ispirati film e serie tv, dischi e giochi da tavolo, persino un merchandising per bambini. Eppure l’operazione tentata da Macintyre funziona, e il quadro della fortezza che esce dal volume è di gran lunga più ampio, complesso, e quindi più soddisfacente rispetto alla versione tradizionalmente nota e diffusa.


Prigionieri del castello è infatti un’opera anomala, che parla di guerra ma che deborda di una strana, inaspettata vitalità, anche grazie alla caratterizzazione, sempre personale e carica di umanità, dei personaggi – colti non soltanto nel momento della prigionia, ma anche come i giovani che sono stati e gli uomini maturi che, in gran parte, sarebbero diventati. E se, talvolta e come spesso nella vita, le sorti dei singoli non sono quelle che ci si sarebbe augurati, prevale su tutto una dimensione collettiva, relazionale, che attraversa il tempo lungo della prigione e che porta alla luce un certo qual senso di giustizia, l’impressione di una rete che – come nel caso della ginestra di leopardiana memoria – consente agli uomini di ogni nazionalità, davanti alle forze oscure che pure esistono, di fare fronte comune per poter, insieme, sopravvivere.

 

Carolina Pernigo