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L'atteso esordio in narrativa di Eleonora Daniel: un romanzo sull'anatomia di un amore, dai primi bagliori alle ceneri di una casa

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La polvere che respiri era una casa
di Eleonora Daniel
Bollati Boringhieri, gennaio 2025

pp. 208
€ 16 (cartaceo)
€ 10,99 (e-book)


È sicuramente esistito un momento in cui collocare lo squarcio. Noi che fino a un certo punto ci amiamo; lei che smette di amarci. Noi che progettiamo il libro pensando a un bambino; noi che progettiamo il libro solo per non pensare al bambino; noi che non abbiamo più progetti in comune (bambini, libri, vite). Noi che possiamo parlare al plurale; lui e lei. Solo che è molto difficile farlo (collocare lo squarcio): è come chiedere a un cadavere se ricorda l'attimo in cui è morto. Come facciamo a saperlo. È andata come sempre: abbiamo sofferto prima l'assenza, poi la presenza. Continuiamo a pentirci dei pensieri cattivi che ci rivolgiamo e a cui non diamo sfogo, è un accumulo estenuante. (p. 78)

Primo romanzo letto del 2025, questo di Eleonora Daniel, penna conosciuta nel mondo dell'editoria, attualmente editor per la casa editrice Accento. Era in cantiere da un po', lo aspettavamo come qualcosa che diventa piano piano inevitabile, forse perché probabilmente alcune persone sono già destinate all'inchiostro sulla carta. 

Ebbene, Daniel dà vita a un romanzo dal titolo molto significativo: La polvere che respiri era una casa. Due tempi verbali, il primo al presente, il secondo al passato, un dettaglio che fa intuire al lettore che, da qualche parte e in un determinato tempo narrativo, c'è stata una sorta di catastrofe, di corto circuito tra i personaggi. 

I due protagonisti per tutta la prima parte non hanno nome: sono solamente un grande significativo "noi", una coppia indissolubile di pensiero e di fatto. Daniel descrive la fioritura della loro storia d'amore, il matrimonio, la decisione di comprare casa, di arredarla, di dividersi gli spazi. Poi, una sera a cena con i suoceri, hanno entrambi la stessa intuizione, nello stesso identico momento (a sottolineare la loro natura simbiotica): vogliono un figlio. Non lo esprimono subito a parole, si guardano e capiscono ciò che hanno in mente. E dunque inizia la danza dei tentativi: il problema è che, nonostante l'amore e nonostante il desiderio che confluisce verso un'unica direzione, le cose non sembrano andare per il verso giusto.

C'è stato un momento in cui siamo stati l'uno il letto del fiume per l'altro. Abbiamo saputo essere felici - è una consapevolezza che non ha nulla di consolatorio finché non ci si arrende all'evidenza: non siamo più felici, lo siamo a giorni alterni, a spezzoni, e non basta.

Ma ancora non sappiamo rassegnarci. (p. 67)

In quel "noi" c'è il fulcro di tutto il romanzo, non solo in ambito di trama, ma soprattutto di stile: Daniel infatti opta per una scelta coraggiosa e originale (io dico anche "frastornante", ma in senso buono), ovvero un narratore onnisciente che sembra esterno alla coppia ma che parla alla prima persona plurale come fosse parte di quella coppia, come fosse una terza presenza che tutto sa, tutto vede, ma che non è né lui né lei

Lei ha cominciato a disdire le visite che aveva in programma con altri specialisti. Ha nascosto i referti ricevuti fino a quel momento - ha scelto un posto dove non li avrebbe più guardati neanche lei. Lì per lì si è detta che avremmo affrontato il discorso quando sarebbe andata meglio, che finché lei si sentiva così parlare di figli era l'ultimo dei nostri problemi. Presto le cose avrebbero ripreso a funzionare, l'estate in arrivo ci avrebbe consentito di stare insieme in un contesto meno stressante di quello quotidiano, e al ritorno avremmo parlato e avremmo risolto tutto (cosa?). Ha scelto di covare il suo segreto come un uovo, se lo è portato a letto con noi la notte; lo ha protetto da ogni pericolo: dalle faine, dagli spigoli, dai passi imprecisi. Non si è schiuso. Ha persino continuato a lavorare al suo racconto per far felice lui. In tutti i modi ci ha impedito di capire. (p. 69)

Oppure è entrambi, è parte di quel "noi". Io ho ipotizzato, in un primo momento, che a parlare fosse la casa stessa: avrebbe spiegato in parte quell'aura di potere che ha nella visione delle cose, ma in alcuni passaggi sarebbe stato forzato. Allora si può ipotizzare sia quel figlio che entrambi desiderano? Ecco, uno dei pregi del romanzo è di stimolare domande. 
Spesso, ad esempio, leggendo io mi sono chiesta: "noi" chi?

La cosa curiosa e interessante è che, a un certo punto, tra la prima e la seconda parte del romanzo, quella voce narrante sparisce. Non è un caso, come non è un caso che compaiano i nomi propri dei personaggi: Riccardo e Margherita. Sparisce la voce narrante e compare un narratore onnisciente classico in terza persona che segue Riccardo. Un cambio di rotta che riporta il lettore in un territorio familiare: si ha come l'impressione di aver percorso delle montagne russe e poi essere atterrati in piano. Si tira quasi un sospiro di sollievo, però rimane l'eco di ciò che è stato prima, della costruzione di un rapporto d'amore che non include nient'altro che quel "noi" e proprio quando prova a espandere in tre corpi quelli che inizialmente erano due comincia a sgretolarsi.

In quelle ore non raccontiamo molto di noi e della soddisfazione di trovarci lì a ogni risveglio. A raccontare una casa si sembra sempre stupidi. È come con un cucciolo, come con un figlio: fuori dal microcosmo domestico, l'infinita insignificanza di dettagli presentati come fondamentali si rivela in tutto il suo senso del ridicolo. Così, lasciamo che siano le stanze a parlare. Solo esistendo rimandano fuori rimasticato il racconto di noi, nelle scelte nei quadri nei colori nei primi segni di usura nei posti in cui si accumula la polvere, in tutto l'amore e in tutto il disfacimento. La casa parla e tutti ascoltiamo. Forse ora siamo noi a parlare perché la casa non potete vederla. (p. 30)

Quando Riccardo e Margherita provano a tenere insieme la trama del loro amore, ecco una nuova soluzione narrativa che ho apprezzato: la favola. Riccardo propone alla moglie di scrivere un libro di favole per il loro futuro figlio. Quel libro sarà il piacere e il tormento di entrambi e ne nascerà Erba (ma non solo), una fiaba che si stacca dall'arco narrativo e che sembra un racconto a sé stante. Erba ha qualcosa dei fratelli Grimm e delle favole norrene, commuove e fa riflettere, soprattutto se pensiamo che Margherita l'ha pensata per un bambino, il suo, che non si sa se arriverà mai. 

Una sorta di racconto dentro al racconto, che paradossalmente è più di trama del romanzo stesso. Difatti, il testo di Daniel ha una trama molto semplice e più che sulla storia in sé, sulle sue possibili evoluzioni o dettagli minuziosi o grandi plot twist, si concentra sulla forma, sullo stile. Ho molto apprezzato, ancora, i passaggi concitati senza uso di virgole, così come alcune parti in cui compaiono elenchi lunghi; il narratore "speciale" è una trovata originale (non ricordo di aver mai letto un testo con un narratore simile, se escludiamo i classici narratori multipli come ne La dama e l'unicorno di Chevalier oppure Dentro l'acqua di Hawkins, che ha un narratore multiplo a focalizzazione variabile; la soluzione di Daniel pare più una voce fuoricampo quasi aliena o fantasmatica che prende a far parte della coppia con la forza. Ricordiamo anche l'uso dell'io e del noi che Manzoni utilizzava alternativamente ne I promessi sposi, per non dimenticare le sue scelte narrative che sottolineano la pluralità della voce narrante. Ma qui, il discorso di Daniel è ancora diverso. Tocca a ogni lettore decidere che definizione dargli).

La scrittura in generale è molto elegante, ponderata, pensata. Grande attenzione agli incisi (in questo caso tra parentesi), che io amo particolarmente come tecnica narrativa. 
Una buona prova d'esordio e un romanzo perfetto per chi ama un approccio contemporaneo ai rapporti e alle relazioni amorose.

Deborah D'Addetta