in

«Un destino che non avevamo mai voluto, il destino che ci aveva consegnato nostro padre»: l'oscurità, gli echi shakespeariani, la prosa salda e gli abissi nel romanzo Premio Pulitzer di Jane Smiley

- -


Erediterai la terra
di Jane Smiley
La Nuova Frontiera, ottobre 2024

Traduzione di Raffaella Vitangeli

pp. 448
€ 22 (cartaceo)
€ 14,99 (ebook)

In fondo ero la figlia di mio padre e credevo inevitabilmente nella superficie intatta del non detto. (p. 123)  

Una superficie intatta che si incrina e crolla, una crepa dopo l’altra, e rivela l’abisso di oscurità in cui sono immersi i personaggi di questa storia potentissima e intrisa di echi letterari da Shakespeare alla grande narrativa novecentesca del Midwest e dove i confini tra buoni e cattivi, giusto e sbagliato, colpa e innocenza sono impossibili da tracciare. L’accoglienza entusiasta che anche pubblico e critica italiana hanno riservato a Erediterai la terra, il romanzo con cui Jane Smiley vinse il premio Pulitzer per la narrativa nel 1992, si deve a una storia retta da una narrazione salda e capace, la trama stratificata e densa di colpi di scena, le occorrenze letterarie, la capacità di evocare un tempo e un luogo ben precisi – la contea rurale di Zebulon, Iowa, tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta – ma allo stesso modo riuscendo a superarli per farsi carico di un dramma universale. Che cosa c’è, dunque, in questo romanzo di oltre quattrocento pagine, che ci tiene inchiodati a una storia di abissi e oscurità?

C’è Shakespeare, prima di tutto. Smiley rievoca il dramma di King Lear e vi infonde nuova vita, lo rilegge in chiave femminile e moderna dando voce e corpo alle tre sorelle che nel testo shakespeariano voce quasi non avevano. Lo fa scegliendo proprio una di loro, Ginny, la sorella maggiore, come voce narrante e punto di vista sulla vicenda, con tutto ciò che questo comporta in termini di narrazione. Una scelta che ho trovato quantomai efficace e che si lega perfettamente all’ambiguità di questa storia tutta. L’arco narrativo principale è piuttosto compresso, ma la portata degli accadimenti tanto profonda che la sua eco è radicata già nel passato e arriva fino a quello spiraglio di futuro che intravediamo nel finale, nell’epilogo della vicenda.

A ripensarci oggi mi rendo conto che la loro conoscenza del mondo doveva essere poco più vasta della mia. Ma all’epoca, quando ascoltavo il loro duetto, mi cullavo nella certezza, corroborata dai ripetuti confronti, che la nostra fattoria e le nostre vite fossero solide e belle. (p. 16)

Una solidità che si spezza quando Larry, il patriarca della famiglia Cook, improvvisamente decide di dividere i suoi mille acri di possedimenti affidandoli alle tre figlie, Ginny, Rose e Caroline: un terzo ciascuna, rinunciando a occuparsi della terra su cui ha vissuto, lavorato e regnato come un monarca per tutta la vita. Una decisione che arriva inattesa e che apre la strada a una serie di accadimenti che rivelano dissapori, dinamiche famigliari complesse, segreti sepolti, rapporti sempre più tesi e rabbia che corrompe come un veleno le vite di tutti loro. Di fronte alla scelta del padre, Caroline, la più giovane e distante delle figlie che da tempo si è affrancata dalla vita alla fattoria, è quella che appare più sconvolta: il suo rifiuto scatena l’ira violenta dell’uomo che decide dunque di estrometterla dalla proprietà e dai progetti per il futuro, chiudendo ogni rapporto con lei. Ginny, come sempre, guarda invece a Rose per capire cosa fare:

Per tutta la vita mi ero identificata in Rose. La guardavo, aspettando una frazione di secondo per intuire la sua reazione a qualcosa, e poi decidevo. (p. 372)

Rose, dal canto suo, è risoluta e quantomai pronta ad accettare l’eredità paterna, avviando così una nuova società e un nuovo corso per la fattoria con lei, il marito Pete, la sorella maggiore e suo marito Ty. La decisione di Larry, dunque, mette in moto dinamiche che sarà impossibile arrestare, gettando nello scompiglio la famiglia di fronte a una scelta tanto inaspettata quanto repentino tuttavia sarà il ripensamento. Di lì a poco, infatti, l’uomo tornerà sui propri passi, rivolgendosi proprio alla figlia minore, Caroline, riaccogliendola accanto a sé. Ma Larry non è più l’uomo che è stato, il patriarca che faceva il buono e il cattivo tempo, dettava legge dentro casa e sui mille acri accumulati faticosamente e con astuzia in tutti quegli anni. Certe stranezze e tempeste sono forse i primi sintomi di quella che Shakespeare avrebbe definito pazzia? È reale la nebbia che sembra avvolgerne i pensieri, il corpo che cede, o è la maschera che sceglie consapevolmente di indossare per difendersi dalla realtà che implode? È su queste ambiguità che Smiley costruisce un romanzo magistrale, i cui difetti minimi si fanno secondari di fronte alla potenza e alla tenuta salda della narrazione. Erediterai la terra è un romanzo cupo, durissimo, che si confronta in modi inaspettati con il tema della violenza, dell’alcolismo, degli abusi, della memoria, con l’«oceano nero» del volto di un padre a cui pare impossibile sfuggire:

«Io so solo questo. So che la sua faccia è un oceano nero e che c’è sempre, sempre, sempre la tentazione di affogare in quell’oceano, di lasciarsi andare e colare a picco. Ma dobbiamo sostenere il suo sguardo. Dobbiamo ricordarci chi è, cosa fa e che cosa ha fatto. Lui crede che la storia ricominci daccapo ogni giorno, ogni minuto, che il tempo stesso inizi con i sentimenti che prova in questo momento. È così che continua a tradirci, ed è per questo che inveisce contro di noi con tanta convinzione. Dobbiamo tenergli testa e ricordare, almeno a noi stesse, che quello che ha fatto in passato è e rimarrà qui con noi, in questa sala, finché non dimostrerà un rimorso sincero. (p. 263)

Non voglio addentrarmi più del necessario in questo brano perché già molto ho detto su uno dei nodi centrali della vicenda, ma ricordate però quanto sia centrale questo passaggio, quanto riveli delle dinamiche famigliari, delle forze che muovono i fili della vicenda. Il confronto con i padri ha alimentato e alimenta una parte considerevole della letteratura, dall’epica alla narrativa contemporanea e anche di Erediterai la terra ne è in qualche modo l’essenza, il centro nevralgico. «Forse esiste una distanza ottimale per guardare al proprio padre […]. Ebbene, questa distanza io non l’ho mai trovata» (p. 33), perché distanza in un certo senso non è mai davvero possibile.

Il “re” di Jane Smiley è un Lear feroce, spietato tanto nelle parole quanto nelle azioni, ma rispettato dalla comunità che guarda a lui come a un esempio di capofamiglia integerrimo e forte; ecco, dunque, che il suo vacillare mette in crisi la comunità intera che non accetta di vedere dietro la maschera e il perbenismo di facciata e si scaglia contro le figlie rimaste, a proteggere il king Lear bandito dalla sua casa in una notte di tempesta. Ginny, Rose e, seppur più sullo sfondo e meno definita Caroline, rivendicano il ruolo che nel dramma shakespeariano era loro in parte negato e si fanno donne di carne e sangue, complesse, mai completamente benevole o malvagie. 

Attirano e allo stesso modo ripugnano il lettore con le loro azioni difficili da giustificare anche di fronte al male subito, le parole che feriscono come lame. Smiley ci mette di fronte all’ambiguità, alla manipolazione del ricordo, senza fare sconti né fornire consolazione, non nel modo che ci si aspetta perlomeno. Non è importante quanta distanza o meno ci sia dal testo shakespeariano di cui A thousand acres – questo l’efficace titolo originale - è ben oltre la riscrittura bensì la prova forse e ancora una volta di quanto l’opera del Bardo sia profondamente radicata in noi. «Shakespeare ha inventato l’uomo», diceva la mia professoressa di Letteratura Inglese all’università: di certo ha saputo metterne in scena i vizi – molti – e le virtù – quasi inesistenti – e l’influenza del suo sguardo non è mai venuta meno; è arrivata fino ai mille acri di Smiley, intrisi di rabbia, colpa, terra e sangue.

Ecco, la terra: questo romanzo ne è intriso, a partire dal titolo dall'eco biblica scelto per questa nuova edizione italiana, ne è l’essenza stessa. Mille acri nelle mani di un solo uomo, destinati a sgretolarsi, in un mondo che cambia. Il centro nevralgico della storia, il conflitto generazionale e il rapporto col padre e tutto ciò che nel romanzo comporta, mettono in ombra quello che pure è un elemento importante e identificativo della storia, delle dinamiche di potere, dei rapporti famigliari e di comunità e che collocano Erediterai la terra nel solco di quella grande tradizione accennata in apertura. 

La scelta di ambientare la storia nelle campagne dell’Iowa tra il finire degli anni Settanta e gli anni Ottanta, oltre a fornire il contesto sociale e culturale entro cui una certa idea del patriarca – non sempre, naturalmente – era consueta, permette anche di far arrivare fino a qui l’eco della guerra in Vietnam e le sue conseguenze e, soprattutto, osservare quel mondo che andava cambiando: schiacciato dalle pressioni economiche, dal rifiuto dei figli di ereditare una vita consacrata alla terra, dai capitali sempre più difficili da trovare per restare a galla, dalle pressioni del mondo esterno. I mille acri di Larry affrontano tutte queste tempeste e al lettore il compito di scoprire se riusciranno a sopravvivere oppure no, come a lui spetta anche l’onere di farsi carico di una storia dove non c’è spazio o quasi per il perdono, per la speranza, e il veleno corrompe la terra e chi la abita.

Debora Lambruschini