Se non ho mai scritto di mia madre, né ho mai avuto un pensiero su di lei, è perché per farlo va scorporata da mio padre. Il che comporta un'operazione delicata, richiede un'attitudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Richiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale. Cioè puntare le parole nelle porzioni non ancora compromesse. Individuarle, isolarle dal resto, e poi incidere, fare male con nettezza. (p. 22)
In effetti è chirurgica, sì, la scrittura che Andrea Bajani impiega per queste centoventotto pagine in cui racconta un percorso delicato e doloroso di presa di distanza dai propri genitori. Non è l'anniversario di una rinascita, quello dei dieci anni passati lontani da loro, ma un «rimettersi disciplinatamente a camminare» (p. 123), atto faticoso perché è giunto solo in seguito a uno strappo, tanto necessario quanto crudo.
Cosa ha provocato la decisione tanto netta di un figlio che per anni ha percorso chilometri pur di far visita ai suoi genitori? Cosa lo ha portato a rompere con una routine apparentemente inscalfibile? Per capirlo, occorre lasciare che l'io narrante racconti le dinamiche che esistevano nella sua famiglia e a cui ha assistito fin da piccolo. Non pensiate ad atti di violenza domestica estremi; c'è una violenza soprattutto psicologica che logora, una disaffezione che aumenta, una disistima che abbrutisce i legami e attribuisce a ognuno un ruolo prestabilito, dal quale pare impossibile sottrarsi:
«Tutto questo era stato, fino a quarantun anni, una condizione cui non davo la patente di normalità ma che semplicemente era lo stato delle cose» (p. 117)
E il ruolo in famiglia è proprio l'unico nome con cui si identificano i personaggi dell'Anniversario: una madre, un padre, una figlia (poco presente, narrativamente), un figlio che osserva e che racconta sotto forma di io-narrante il suo essere figlio, per l'appunto. Della madre si rileva il suo cercare di passare inosservata («Non poteva dire molto, poteva starsene in disparte, farsi spettatrice», p. 31) per non urtare la centralità del marito e non turbare il già precario equilibrio domestico. Lei, «predisposta all'inesistenza e al suo inevitabile corollario dell'invisibilità» (p. 46), è spesso ritratta nell'assenza, nell'accondiscendenza, nei tentativi di disinnescare le ire paterne.
Viceversa, al padre pertiene un'«istituzione totalitaria»: l'uomo non esita ad allontanare l'unica amica della moglie perché potenzialmente pericolosa per il loro rapporto, in quanto femminista e "sovversiva"; rielabora storie di famiglia perché non figurino mai i suoi errori; nelle conversazioni è sempre lui ad avere la meglio, davanti a una moglie rinunciataria in partenza, presa dal suo «conservatorismo sincero» (p. 96). Viene da chiedersi, assistendo da spettatori esterni alle scene, quanto ci sia di mediato dalla sensibilità del figlio allora bambino e quanto rivisto da un suo tentativo di rappresentazione più matura, a posteriori. Resta costante che la madre tende a farsi da parte, ma quanto della sua rinuncia è sofferto e quanto, invece, è proprio del suo carattere?
«[...] in ogni scena, mia madre guarda altrove. Più che il corpo di mio padre che sovrasta, è quello di lei che si sottrae. Quel sottrarsi, per timidezza o per timore, è quello che mi resta» (p. 77)
La relazione turbolenta del figlio con il padre e al contrario la pacata accettazione dello status quo da parte della madre si riversano in telefonate che per anni lasciano il figlio spossato nello spirito e quasi bloccato nelle relazioni. Ecco perché L'anniversario racconta di una vera e propria liberazione: non c'è niente di lieto, ma vi si narra una serenità ritrovata, che è costata al soggetto ore di terapia e anni di riflessioni e dialoghi con i propri sensi di colpa.
Il fatto che il memoir sia costruito su episodi raramente impetuosi porta davvero a stringere tra le mani un libro «scandalosamente calmo», come ha scritto Emmanuel Carrère nella fascetta del romanzo? Dubito, per quanto stimi Carrère. O forse semplicemente questo è un libro che ci risuona dentro e porta a far riaffiorare tessere di vissuto che possono avvicinarci di più o di meno al resoconto chirurgico di Bajani.
Nell'esattezza delle parole scelte, nell'asciuttezza di una prosa che definisce i rapporti, blocca i gesti e ritrae quasi scientificamente le persone e il vissuto, ho trovato una furia che si è placata attraverso la scrittura, l'autoanalisi, lo scavo in un'interiorità da parte di un uomo che non teme di ascoltarsi. Quanto allo stile, non c'è neanche bisogno di parlarne, perché Andrea Bajani è tra i pochi scrittori da leggere con silenziosa ammirazione.
GMGhioni
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