La donna che scrisse Frankenstein
Mary Shelley, Emily Dickinson, Jane Austen, Sylvia Plath: autrici molto diverse tra loro ma accomunate – loro e non solo – dalla leggenda che ne avvolge le figure, l’intreccio di mistero e familiarità, la costruzione del personaggio non sempre aderente alla persona reale e certi dettagli che ne hanno definito le figure nell’immaginario collettivo. Dickinson, la poetessa vestita di bianco che si isolò dal mondo; Austen, la scrittrice che più di ogni altra conosceva i tumulti del cuore e che scelse una vita da nubile; Plath che non sopportava più i propri demoni e mise la testa nel forno nel tentativo di scacciarli. Mary Shelley e i suoi fantasmi. A soli diciannove anni concepisce il suo capolavoro, Frankenstein, destinato a rimanere per sempre. La sua biografia è un susseguirsi di lutti, perdite, dolori, ma anche passioni, a partire da quella che la legherà per sempre al poeta Percy Shelley, tra i più importanti esponenti dei Lake Poets. E nell’immaginario collettivo è la donna che sceglie la libertà, l’amore funestato dalla perdita, la scrittrice che ha dato forma alle paure del tempo. A Mary Shelley e alla sua creatura letteraria sono dedicate innumerevoli pagine, dai saggi critici più puntuali alle rivisitazioni, le biografie, i romanzi, le suggestioni più diverse.
Il mio personale interesse per la scrittrice e il suo più celebre romanzo non si risolve soltanto con gli studi di anglistica, ma ha a che fare con qualcosa di più misterioso e istintivo, meno spiegabile. Un interesse che negli anni mi ha spinta a leggere anche alcuni di questi esperimenti letterari, testi ibridi, saggi e romanzi che intendono di volta in volta restituire un aspetto della complessa figura di Mary Shelley, del suo tempo, della sua scrittura. Uno degli esperimenti più riusciti degli ultimi anni era stato il saggio di Victoria Shorr, L’ora del destino, che metteva al centro il coraggio delle scelte e il desiderio di libertà di una donna che rifiuta le convenzioni della sua epoca, tanto dal punto di vista personale che creativo, ma anche le numerose sfumature di una personalità complessa e che alimentano la leggenda, della sua vita ma anche intorno alla creazione del suo personaggio letterario. L’ora del destino, per Mary, è su quella spiaggia di Lerici, a cui l’amato Percy non farà mai ritorno. Un altro fantasma ad accompagnare la vita della scrittrice.
Il mondo di Mary Shelley è popolato di fantasmi e delle reliquie delle persone che ha amato e perduto. Parti di storie che diventano la sua, funestata dal lutto che la accompagna fin dalla nascita, a cui segue, pochi giorni dopo, la morte della madre, Mary Wollstonecraft Godwin. Mai conosciuta in vita, la rincorrerà attraverso le pagine scritte, nel tentativo di scoprirne l’identità più vera dietro la leggenda, oltre le parole degli altri. A partire da quelle del marito, che scrivendone la biografia contribuisce ad alimentare la leggenda, ma anche in qualche modo a dare forma a un fantasma che perseguiterà Mary per tutta la vita adulta. La donna che emerge da quelle pagine è una figura del suo tempo, umanissima e controversa, a cui i lettori non perdonano molte scelte e libertà, al pari di quanto accadrà alla stessa Mary, anni dopo. E quella madre, Mary la cerca fin dall’infanzia nel luogo dove sono sepolte le sue spoglie mortali: sulla sua tomba la figlia trascorre le ore a leggere, a riflettere, a scrivere.
Dobbiamo abbandonare la concezione contemporanea della morte e del rapporto con essa per addentrarci nella storia di Mary Shelley e nello strano libro che la scrittrice argentina Esther Cross le dedica, La donna che scrisse Frankenstein, pubblicato da La Nuova Frontiera nella traduzione di Serena Bianchi, ultimo in ordine cronologico di una serie inesauribile di testi che ruotano intorno alla leggenda della scrittrice. Dobbiamo abbandonare certe concezioni, dicevo, perché il mondo di Mary Shelley è assai diverso dal nostro, la presenza della morte permea il quotidiano a diversi livelli; la vita della scrittrice è costellata di lutti, perdite, reliquie da portare con sé e sono quelle stesse perdite e la realtà in cui vive a plasmarne l’immaginario, a dare forma al celebre romanzo che conosciamo.
Il lavoro di Cross si colloca tra il saggio critico, la biografia, la fiction, ma è come noi lettori scegliamo di posare lo sguardo a fare la differenza: se pensiamo di leggerlo come la biografia lineare di Mary Shelley o un’analisi critica esaustiva della sua opera, ne resteremo delusi. Non è un testo specialistico e per l’anglista o il lettore che già abbia una certa familiarità con la figura di Mary Shelley e l’epoca entro cui la sua opera si colloca poco potrebbe aggiungere al discorso critico sull’autrice e il suo celeberrimo romanzo. Manca di quel guizzo originale del già citato saggio di Shorr; per contro, è ben al di sopra di un altro esperimento di qualche anno fa, Mary, il romanzo di Anne Eekhout pubblicato da Neri Pozza, in cui l’invenzione letteraria e la commistione di generi mi avevano lasciato particolarmente perplessa.
Tra le pagine di La donna che scrisse Frankenstein quello che meglio di altro emerge e prende forma non è un ritratto inedito o particolarmente puntuale della scrittrice e del suo romanzo da un punto di vista critico-biografico, non era quella l’intenzione: ciò che invece paiono essere le intenzioni di Cross è dare vita al mondo in cui Frankenstein – e Mary con lui – è stato plasmato, e un aspetto in particolare della Londra vittoriana che diventa fondamentale nella formazione della scrittrice Mary Shelley. Un testo divulgativo, dunque, che non soddisfa pienamente la mia curiosità di anglista appassionata, ma che ci porta a osservare le cose da un punto di vista interessante. L’indagine di Cross, dunque, più che ricostruire in modo esaustivo la vicenda biografica dell’autrice o collocarsi nel solco delle approfondite analisi critiche della sua opera, offre al lettore un filtro con cui osservare le cose, suggerendo un punto di vista peculiare da cui indagare le pagine. Ha, come gli altri testi citati, il pregio di suscitare il desiderio di rileggere ancora Frankenstein e indagarne le numerose stratificazioni, il dialogo mai interrotto con la contemporaneità, alla luce anche degli spunti scaturiti da queste pagine. Il punto di osservazione, dunque si diceva, è un aspetto specifico della Londra vittoriana che influenza profondamente la scrittura di Mary Shelley e in un certo senso ne spiega la figura stessa:
Ai cimiteri, Mary Shelley era stata legata fin dall’infanzia. Aveva vissuto in un’epoca di ladri di tombe, dissezioni e collezioni anatomiche, un’epoca romantica caratterizzata dalla morbosità e dal culto della vita. Ma se è vero che a quei tempi la presenza della morte e delle sue varie declinazioni non era qualcosa di insolito, nella vita di Mary tutto questo era stato portato all’estremo. (p. 9)
La questione dei ladri di cadaveri, dunque, è oggetto di frequenti dibattiti, per le strade e nei luoghi di potere, si lega alle necessità dei medici e gli studi che porteranno a un importante progredire della medicina. Ecco perciò il punto di vista originale e interessante attraverso cui Cross costruisce la sua tesi, mediante le ricerche approfondite sul mondo di Mary Shelley e le implicazioni che questo avrà sulla sua scrittura. Il trafugamento di cadaveri era pratica talmente frequente che chi poteva permetterselo pagava qualcuno per sorvegliare per un certo periodo le tombe dei propri cari e dove, di conseguenza, i cadaveri dei meno abbienti erano bersaglio dei tombaroli, al centro di un mercato nero e di pratiche scandalose. I cadaveri non erano solo ambìti dai medici per i propri studi sull’anatomia umana, ma al centro di un più generale interesse, tra morbosità e ripugnanza, che spesso conduceva a veri e propri spettacoli di galvanismo a beneficio del pubblico. È questo, dunque, il mondo in cui il dottor Frankenstein si muove e dal quale è plasmato:
Il dottor Frankenstein si mette all’opera […]. Egli è la fusione tra uno studente di anatomia e un apprendista di galvanismo, tra un chirurgo e un ladro di tombe. Vuole comprendere la vita e scoprire il segreto della resurrezione. Per riuscirci deve, letteralmente, entrare in contatto con i defunti. Nel romanzo, di fatto, il dottore parla con un morto vivente. (p. 61)
Ogni studio critico più o meno approfondito sul romanzo di Mary Shelley non manca mai di sottolinearne il dialogo con il contemporaneo e la straordinaria capacità dell’autrice non solo di dare corpo attraverso il suo protagonista e il dottore che l’ha creato alle paure dell’uomo del suo tempo, ma anche di quanto profondamente abbia saputo anticipare molte delle questioni che saranno al centro del dibattito etico e scientifico più tardo, fino alla nostra più stretta contemporaneità e una delle ragioni per cui la forza del romano appare inesauribile.
Allo stesso modo è immancabile l’indagine più o meno profonda del rapporto con Percy, con la madre perduta, i lutti che hanno segnato la vita adulta di Mary Shelley. Fantasmi di cui Mary ha tenuto qualcosa con sé, piccole reliquie e oggetti che l’hanno seguita in ogni viaggio, accumulandosi al dolore di ogni perdita attraversata. Che cosa poteva conservare dell’amatissimo Shelley, se non il suo cuore? È sepolto con lei, a Bournemouth, in Inghilterra, insieme ad altre reliquie, mentre le ceneri del poeta sono nel cimitero acattolico di Roma. Il loro tempo condiviso in vita è stato relativamente breve, ma così denso che pare estendersi molto di più e che li ha visti farsi quasi un’anima sola, circondati da simili fantasmi, intenti in un dialogo intimo e letterario che nemmeno la scomparsa del poeta ha potuto interrompere.
Rimasta sola, trasformò il suo diario in una lunga lettera al marito. “Dove sei, Shelley?” “Dimmi la verità […]. Dove sei? Quando ci incontreremo?” continuava a domandare, a sei mesi come a vent’anni dal naufragio. (p. 68)
Mary e Percy, Mary e il suo tempo, Mary e i fantasmi. Mary e la sua creatura. Mary. La mia ossessione per la sua figura si è nutrita di nuove sfumature e Mary si fa sempre più umana, spogliata della leggenda che la avvolge. Più vera. Più vicina.
Debora Lambruschini
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