«Mater semper certa pater numquam». Due vite sospese sopra un terribile segreto che viene dal passato ne “La madre certa” di Michela Capone


La madre certa
di Michela Capone
Castelvecchi, 20 settembre 2024

pp. 164
€ 18,50 (cartaceo)

«E tuo padre, a tuo padre non pensi?»
«No, per niente, sarà un pezzo di merda come Giorgio».
«Per assurdo, tuo padre, pezzo di merda o no, nessuno lo cercherà, vivrà favorito dall’incertezza. Mater semper certa pater numquam» (p. 116)

Se vi piacciono i libri che invitano a riflettere sulla maternità e sull’identità “donna non madre” e adorate figure femminili forti che custodiscono gelosamente un passato di cui si vergognano e che vorrebbero dimenticare per sempre, questo romanzo vi conquisterà. La madre certa è l’ultimo lavoro di Michela Capone, scrittrice e giudice minorile del Tribunale di Cagliari, uscito per Castelvecchi lo scorso settembre. Il romanzo ha una trama che si articola su due parti, Eva e Giovanni, più un Prologo e un breve Epilogo. Presenta inoltre due voci narranti interne alla storia, che a quasi metà libro cominceranno ad alternarsi raccontando una storia dolorosa e ugualmente coinvolgente. La costruzione dell’opera è semplice e funzionale e la soluzione delle due focalizzazioni interne, lungi dal generare confusione nel lettore, conferisce ritmo e variazione al tessuto narrativo. Capone intreccia le due voci in maniera efficace, verso il finale ci gioca riuscendo a generare in chi legge una tensione palpabile che rende avvincente e godibile la lettura. 

Il libro comincia in medias res: il lettore si trova in una camera dove sul letto giace per sempre un uomo, dipinto come un latin lover, amato da molte donne, ora tutte in lutto e piangenti per la perdita. La voce narrante è quella di una ragazza - che più in là scopriremo chiamarsi Eva Settembrini - e che verso il defunto prova profondo disprezzo, tanto grande quasi quanto quello che prova verso sua madre, succube di quell’uomo, che ogni volta

A tarda sera rientrava dal mare, umido e con la puzza di pesce, gonfio di sesso e vino, lei gli scaldava la cena e lo guardava mentre godeva del cibo. Mia madre ha continuato ad amarlo anche dopo che ha saputo. (p. 12)

Cosa ha saputo? È l’interrogativo spontaneo del lettore. È così che Capone costruisce questa storia, ora lasciando intendere il segreto e ora tacendolo fino a quando la stessa Eva è “costretta” a rivelarlo a tempo debito al lettore nel suo racconto che spesso ha il sapore della confessione più intima e spietata. L’uomo che è morto è Brando, il nuovo compagno della madre, stroncato durante il sonno da un infarto fulminante a soli trentotto anni e lungo le pagine del libro tornerà spesso, in flashback che testimoniano il comportamento  riprovevole di lui nei confronti della figliastra. La piccola Eva avrebbe infatti voluto trovarvi il padre che non ha potuto conoscere, dal momento che il padre biologico era morto troppo presto, quando lei era così piccola da non poterne avere ricordi. «Per me un padre è un nome su una lapide» (p. 27). Tuttavia il patrigno si mostra un uomo violento e senza scrupoli di alcun genere.

Dopo i funerali di Brando, Eva decide di lasciare il paesino di mare nel Sud Italia dove è nata e cresciuta, per vivere in una città del Nord dal nome inventato, Talice, per rompere ogni filo col suo passato e ricominciare una nuova vita. La necessità di sopravvivere al dolore e al disprezzo verso la propria madre la porta lontano, in un luogo sconosciuto dove però farà subito amicizia con tre ragazze lavoratrici che condividono in affitto un piccolissimo appartamento e si farà accogliere dalla famiglia Pistoia come badante dell’anziano professore di Lettere, padre di Gemma e nonno di Michele. In casa Pistoia Eva conoscerà il calore vero di una famiglia, sentirà empatia e solidarietà verso la padrona di casa, troverà l’amore del paziente Michele, professore universitario e figlio di Gemma. Talice sarà lo sfondo di una meravigliosa amicizia dipinta agilmente dalla penna cristallina ed elegante di Capone che farà dimenticare a Eva l’incubo del suo passato:

La domenica arrivavo dalle mie amiche molto presto e con i cornetti caldi. Il più delle volte era Diana ad accogliermi, mentre Cinzia e Marta se ne stavano ancora a letto, perché la stanchezza del lavoro non è pari a quella della mente, argomento su cui discutevamo spesso, io stavo zitta orgogliosa di stancarmi. Entravo in casa come un gatto e con un bacio auguravo il buon giorno a Diana che aveva già fatto il caffè. Avanzavo con gli occhi grandi per non inciampare nel disordine: borse, scarpe, buste di spesa e lo stenditoio piegato dal peso del bucato della sera prima; roba di Cinzia, roba di Diana e roba di Marta, riconoscibile dai colori e dalla taglia; Marta amava il colore ed era mingherlina come una bambina inappetente, Cinzia vestiva di pizzi le sue rotondità; Diana, asciutta e piallata, portava i pantaloni per nascondere le gambe da cowboy e biancheria in cotone rigorosamente bianca per via dell’allergia che la perseguitava. (p. 47)

L’idillio di questa amicizia è però destinato a durare poco, perché Eva non vuole coinvolgere nessuno nella sua spirale di dolore e di vergogna, per cui si allontana volutamente dal gruppo appena l’ombra del suo passato oscura la gioia di trascorrere tempo insieme a Marta, Diana e Cinzia. Nessuno conosce il segreto di Eva, non verrà mai rivelato neppure al marito Michele, lo stesso lettore scoprirà solo più in là nelle pagine lo snodo giudiziario che unirà le vite delle due voci narranti, Eva e Giovanni, a distanza di molti anni, dopo un lungo salto temporale al centro della narrazione. La scrittrice fornisce al lettore tutte le informazioni di cui ha bisogno per soddisfare la sua curiosità su ciò che è accaduto a Eva e ai personaggi che ruotano attorno a lei nel lungo salto temporale - più di trent’anni - in modo sapientemente sparso tra un racconto e l’altro di Eva e di Giovanni. Non bisogna essere frettolosi, in questa lettura le rivelazioni arrivano al momento giusto e bisogna accettare le regole del gioco imposte dall’autrice.

Ne La madre certa la figura paterna, biologica e non, quando non è assente, come nel caso del padre di Eva, oppure malata, come nel caso del padre di Michele (l’uomo che poi si unirà alla protagonista) è sempre marginale, oppositiva e oppressiva nei confronti dei propri figli. Il focus del libro è l’inutile lotta contro un passato che può tornare anche a distanza di anni e farti pagare il prezzo delle scelte fatte.

Chi sei?
Se non ti conoscerò, non potrò conoscermi. Sono un bambino vecchio, perché i bambini e i vecchi si ingannano, non si ascoltano, loro sanno accontentarsi, la vita e la morte li liberano dalla delusione, solo i bambini e i vecchi sanno dimenticare. Io no, ci ho provato, ma il dolore si è solo distratto ed è ritornato. Se ti avessi conosciuta e fossi morta, avrei avuto il tuo ricordo, il lutto nero allevia la mancanza con la nostalgia. Se fossi morta e ti avessi conosciuta, parlerei di te, di com’eri, di come ti muovevi, di ciò che mi hai insegnato, di come ti prendevi cura di me. Ma io ho fatto parte di te per poco tempo, il tempo sbagliato. (p. 127)

Credo di essere uscita segnata da questa lettura. La madre certa rischia di diventare un libro indimenticabile.

Marianna Inserra