di Francis Scott Fitzgerald
Mondadori, ottobre 2024
pp. 180
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per un giovane poeta in ascesa questo avrebbe potuto essere un colpo devastante, ma Pat era fatto di una tempra più tosta. Più tosta non verso sé stesso, ma verso l'amaro destino che l'aveva perseguitato per quasi un decennio. Con tutta la sua esperienza, e con l'aiuto di ogni erba velenosa che fioriva tra Washington Boulevard e Ventura, tra Santa Monica e Vine, continuava a scivolare verso il basso. A volte riusciva ad aggrapparsi a un cespuglio, ad avere qualche settimana di tregua sull'isola di un "lavoretto di limatura", ma in generale la caduta proseguiva a una velocità che avrebbe stordito un uomo meno determinato. (p. 106)
Quarantanove anni, un ventennio di lavoro come sceneggiatore agli studios di Hollywood, e ora invece è solo “una vecchia gloria”, troppo spesso attaccato ai ricordi del passato, pronto a mendicare un qualsiasi lavoro per un decimo di quanto prendeva ai tempi del cinema muto. Le consolazioni? Qualche bottiglia (non bicchiere) di troppo, qualche donna di cui non ricordarsi manco il nome e qualche puntata sui cavalli, approfittandosi delle dritte dell'allibratore degli studios. Questo è Pat Hobby, «un uomo solo» (p. 113), che torna agli studios anche quando non ha nessun incarico, profetizzando che gli arriverà presto un nuovo incarico, e talvolta si ritrova a bussare ripetutamente alle porte di chi un tempo gli faceva contratti più che remunerativi:
«La sua destinazione, il suo rifugio, erano gli studios, dove non aveva un lavoro ma dove era stato di casa per tutti gli ultimi vent'anni». (p. 135)
In generale, però, Pat Hobby non si pone grandi problemi a chiedere ripetutamente compensi che poi andrà a dilapidare rapidamente, con una scrollata di spalle. Lui non ha nessuno a cui badare: le sue tre mogli appartengono al passato e deve ormai pensare solo a sé stesso. Quello che lo mette in crisi semmai è la perdita del ruolo e del riconoscimento pubblico:
«per la maggior parte del tempo non si preoccupava di nulla, nemmeno quando era senza un salario. Eppure adesso un problemino c'era: per la prima volta in vita sua cominciava ad avvertire una perdita d'identità». (p. 57)
Lui, che era uno sceneggiatore apprezzato ai tempi dei film muti, alla fine degli anni Trenta osserva con profondo senso critico i cambiamenti e i nuovi gusti del pubblico. Dunque, non si impegna più, lo vediamo rubare e riutilizzare un copione o affidare a terzi il "lavoro gramo" dell'ideazione e della prima stesura. Insomma, Pat Hobby appare per alcuni versi come un uomo finito, drammaticamente ancorato alle memorie del suo passato, ormai annacquate dal whisky («“E la mia reputazione?” obiettò Pat. “Lasciamo perdere” disse Berners», p. 99).
Se gli altri non credono più in lui, Pat sa bene però come nascondere la propria quotidiana emarginazione, recitando la parte di chi è padrone della situazione. Coerentemente, non c'è verità (o quasi) che non possa manipolare a suo piacimento, perché Pat ha il dono della parola e dell'improvvisazione: gira la realtà a suo vantaggio, a suon di menzogne e divertenti colpi di genio. Ma questo non toglie l'impressione che ogni episodio del suo presente termini con un fallimento.
«Sono uno sceneggiatore, non un pagliaccio!» (p. 60), si trova a ripetere più volte, eppure, quando ha bisogno di soldi, accetterà persino di improvvisarsi stuntman o modello per una ritrattista, cogliendo tutta l'amarezza dell'essersi ridotto a tanto. Divertono le sue trovate per spillare altro denaro e contemporaneamente il mondo che mostra Pat è l'altra faccia di Hollywood, quella del precariato, della dipendenza da sostanze per mettere a tacere la perenne ansia di essere qualcuno, in una realtà che cambia di continuo. Impossibile stare al passo, adattarsi alle richieste e non farsi sorpassare da qualche nuovo nome; il massimo che si può fare è barcamenarsi come Pat Hobby, insistendo per mantenere il proprio nome su qualche copione senza arrendersi mai.
Benché si sorrida spesso leggendo questi racconti, in molti punti l'umorismo di Francis Scott Fitzgerald si fa amaro: il cinema è finzione anche dietro le quinte; i rapporti sono basati su un inevitabile do ut des, e solo premendo a più non posso il tasto della pietà si può forse mendicare qualcosa, a costo di rinunciare però alla propria dignità. In ogni caso, risollevarsi dal ruolo marginale e polveroso in cui si è finiti è impossibile. E questo è il mondo in cui lo stesso Fitzgerald si è trovato a lavorare alla fine della sua carriera, tra il 1939 e 1940 (anno della sua morte), come sceneggiatore per la Universal. Un mondo guardato con gli occhi arrossati dall'alcol del suo protagonista, in racconti che sono usciti in rivista su «Esquire» negli stessi anni, quindi quasi in presa diretta.
Risistemati con una nuova traduzione firmata dal sempre bravissimo Marco Rossari, i racconti sono stati proposti a ottobre col titolo Le disavventure di Pat Hobby per i tipi di Mondadori. Complice il lavoro di Rossari, è incredibile quanto questi testi scorrano con un ritmo sorprendentemente contemporaneo e risultino magnetiche testimonianze di una scrittura sciolta, che del cinema sfrutta gli strumenti. Tra dialoghi brillanti e fulminanti, passaggi riflessivi che contengono riferimenti metacinematografici, i racconti delle Disavventure di Pat Hobby non rischiano di stufare, benché la struttura dei singoli episodi sia molto simile: Pat è destinato a fallire e il racconto si chiude con la sua disfatta, mai però definitiva. Anti-eroe permeato di una sua acuta eppure auto-distruttiva intelligenza, Pat Hobby è il residuo di un cinema ormai andato, sceneggiatore di un suo spettacolo per cui nessuno, tranne lui stesso, pagherebbe un biglietto.
GMGhioni