di Pietro Grossi
Mondadori, 2025
pp. 530
€ 22,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
L'ultimo romanzo di Pietro Grossi si inserisce nel filone di autobiografie letterarie che negli ultimi anni si è imposto come fenomeno non solo in Italia. Ma qui l'autofiction assume un carattere stilistico innovativo per l'utilizzo di un noi-narrante, che dovrebbe rendere immediatamente percepibile la frammentarietà e la multiformità del soggetto. Il narratore (o per meglio dire "i narratori") riconosce a Il lupo della steppa di Hesse la paternità dell'idea della multiformità dell'io, ma, del resto, gli antecedenti letterari non mancano. Il primo pensiero va al pirandelliano Vitangelo Moscarda, che anzi, insolitamente è assente. Nonostante la narrazione segua la biografia del personaggio dall'infanzia all'età adulta, Grossi dedide di scrivere un insolito Bildungsroman. Il romanzo è diviso in tre parti: si comincia dai Miraggi e si conclude agli Approdi.
Non ci restava che fingere. Cominciammo con dei dolori addominali. Il primo ricordo è la sagoma in controluce del babbo e della mamma: lei sul bordo del letto, la mano sul nostro ventre, lui in piedi lì di fianco. C'eravamo solo noi e loro, e la preoccupazione che d'un tratto ci dimostravano. Funzionava talmente bene che pensammo di prolungare la durata dei malori. (p. 11)
Si parte così, dall'infanzia dorata del protagonista, in una famiglia agiata, tra vacanze e ville, e la sua maledetta abitudine di dire bugie, di alterare il reale, di crearsi un mondo parallelo. Questa tendenza porterà a un'alienazione adolescenziale, che trova sfogo in abusi di alcool e droghe, accesi sfoghi di violenza. E poi, ancora, una giovinezza di viaggi in America, tra i deserti degli allucinogeni e i vagabondaggi tra New York (era lì proprio l'11 settembre) e New Orleans. Si consumano luoghi, persone, droghe, spazi, senza che appaia una formazione; siamo davanti a spostamenti orizzontali che non producono un romanzo di formazione, perché sembra rimanere intatta la mancanza di senso che si aveva a Firenze e in Italia e anche l'evento epocale del crollo delle Torri gemelle - al di là di una sorta di biglietto strappato alla storia universale, per la serie: "io c'ero" - si stenta a capire cosa produca nella crescita del personaggio e quali modifiche radicali apporti (al di là della descrizione abbastanza retorica del «fissare imbambolati il fumo marrone che si alzava verso il cielo» p. 204). Il protagonista continua ad essere colui che si trova «a immergere i volti tra le gambe di studentesse polacche, a bere nell'appartamento di Allen Ginsberg, a chiacchierare all'alba con persone che osservavano mondi più vasti dei nostri» (p. 213).
Il mio pensiero più che a Vitangelo Moscarda, lo ammetto, è corso al personaggio di Ecce bombo, a cui Nanni Moretti con la sua consueta icasticità fa dire: «Faccio cose, vedo gente», e nella terza parte del romanzo questa "gente" viene chiamata per nome (spesso anche per cognome). Così tra le telefonate di Enzo (Siciliano), i dialoghi con Erri, i Sellerio, Bertolucci,... abbiamo fatto "la conta di quelli che contano". Non uso il termine "amichettismo" perché è un neologismo che detesto, però ammetto che in questo caso sarebbe veracemente appropriato.
Nonostante ogni io venga a un certo punto chiamato con un nome, e a ognuno si attribuisca una funzione in questa sorta di opera teatrale che è la nostra coscienza abitata da personaggi in cerca d'autore, ciò che ho trovato poco convincente è che, al di là dell'uso del "noi", troviamo un io monolitico, che non si modifica, che attraversa ogni esperienza con la stessa tonalità emotiva (la parentesi di Greenpeace e quella alla scuola Holden, le esperienze drammatiche degli aborti della compagna e della sorella).
Il punto di svolta, di certo, è rappresentato dalla comprensione che è la scrittura il destino, l'entelechia a cui queste divagazioni senza meta tendono. Così l'autore descrive l'approdo alla Holden:
la seconda intuizione della scuola era che, se desideri raccontare, ancor prima di conoscerne i mezzi devo affinare i tuoi strumenti personali: i tuoi sensi. Il narratore deve entrare in una stanza e sentire di più, notare di più. Ci ritrovammo dunque in trentacinque in una stanza, bombardati quotidianamente da ogni sorta di lezione o seminario. [...] Liberi da compiti, esami e scadenza, tutto ciò che ci veniva chiesto era di sedere sulle nostre sedie e assorbire la sostanza che di ora in ora ci veniva rovesciata addosso. (p. 165)
Diventare uno scrittore, vincere dei premi, fa sì che la vita e il sogno si sovrappongano.
Ciò che nei nostri più scriteriati momenti di entusiasmo immaginavamo prima che il libro uscisse si era non solo realizzato, ma addirittura moltiplicato. (p. 391)
Letteratura e vita, comprende il protagonista, sono composti da elementi simili. Simili o sovrapponibili? Il problema dell'autofiction spesso è questo. Il narratore sta davvero e semplicemente narrando se stesso oppure ci sta invitando a un gioco con un narratore di secondo livello, che finge di essere un io biografico? È un problema avvertito in ognuna delle autobiografie letterarie, a cui di solito si ovvia trovando una finestra che consente al lettore di uscire dalla confessione intima per accedere a contenuti emotivi o simbolici universali. Non sono riuscita a farlo con il libro di Pietro Grossi, che pure è scritto molto bene. Vi ho trovato a tratti un'impudicizia fastidiosa, proprio perché non sono riuscita a rispondere alla domanda: "Ma perché, precisamente, mi sta raccontando tutto questo?". Credo che avesse ragione Proust, nel suo celeberrimo saggio Contro Saint-Beuve, a sostenere che un libro è un prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle abitudini, nella vita sociale e nei vizi dell'io biografico dello scrittore. Ed è indicativo che lo sostenesse proprio colui che ha fatto del suo io lo specchio del mondo. Quindi il problema non è l'autofiction, ma probabilmente rendere quel noi un plurale che include anche il lettore.
Deborah Donato
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