pp. 272
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Come oso [...] togliere la polvere alla storia di Venera? Deve restare segreta, solo nostra. Cosa t'importa delle date, delle prove? Bisogna fidarsi solo di ciò che è stato detto, le storie di famiglia sono formule magiche trasmesse alle prescelte la notte di Natale, si raccontano una volta e non si contraddicono più - chi sei tu per metterle in discussione? La storia di Venera è una fiaba, si invera per ripetizione, nell'oralità. Come puoi scrivere di lei, sul serio ti reputi all'altezza? (p. 45)
Ci sono storie di famiglia che rintoccano nei racconti da una generazione all'altra, che con quel passaparola ammantato di narrazione costruiscono la Mitologia Familiare di ognuno di noi. Per la protagonista del libro, che coincide dichiaratamente con l'autrice, è tempo di non accontentarsi più solo delle parole, che hanno spesso edulcorato la storia della bisnonna, ribattezzata nel romanzo Venera. A sentire l'urgenza di parlare di lei è una Nadia Terranova appena diventata madre, che percepisce l'enorme responsabilità che comporta questo suo ingresso nel mondo genitoriale: «capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire» (p. 8).
Essere madre per Nadia significa questo: mettere sua figlia davanti a tutto, senza però nascondere le difficoltà, la stanchezza, i cambiamenti del proprio corpo, le preoccupazioni e le ansie di un'esperienza così totalizzante. Eppure, Venera non abbandona i pensieri di Nadia, è «un'antenata sulla soglia» (p. 116), che chiede di essere conosciuta più da vicino. Lei non è solo la bisnonna che è stata internata al manicomio di Messina, il Mandalari, nel marzo del 1928, a non ancora trentotto anni; lei è una madre, una moglie, ma soprattutto una donna di cui si sono riportati troppo poco i pensieri.
Venera, dopo aver popolato i sogni di Nadia, le si è «incarnata sul corpo», come una «macchia sullo zigomo sinistro» (p. 18) che non accenna ad andarsene, più visibile alla lei che al resto del mondo. Basta questo a instillare nella protagonista, profondamente bloccata nella «promiscua pienezza» (p. 32) della sua maternità, il bisogno di riportare in vita la bisnonna attraverso la sua storia e le memorie di chi l'ha conosciuta. Non si tratta di una biografia, sia chiaro, ma di una narrazione in cui la Nadia talvolta smette di essere la donna sospesa tra il desiderio di rivendicare la sua vita di scrittrice e la vita da neo-mamma quarantenne, oggetto di mille domande da parenti, amici e conoscenti; diventa invece narratrice di un'altra vita, quella di una donna, madre come lei, che ha vissuto per un periodo l'esperienza estrema della reclusione in una casa di cura. Dove non arriva la ricostruzione oggettiva dei fatti, può fare ammenda la memoria della famiglia, insieme a una caterva di ipotesi che fanno di Venera anche una protagonista finzionale:
Quando scrivo creo forme di verità circoscritte da un limite, è il confine a renderle autentiche, a dar loro la concretezza che serve: non devo importare nulla, ogni cosa basta da sé.Ma scrivere è anche una profezia, quante volte ho trasformato in memoria un sogno o una visione del futuro? (p. 103)
E se «scrivere è creare un incantesimo» (p. 111), noi lettori entriamo non in punta di piedi ma ex abrupto in queste due vite di donne, che ci ospitano in un grande abbraccio, materno e al tempo stesso inquieto, raccontandosi. Attorno a loro ci sono poi mariti, figli e figlie, ma sono loro due le vere protagoniste di Quello che so di te.
Ritroveremo così la dimensione della memoria, che è un tema centrale nelle opere di Nadia Terranova: non è mai una memoria tenuta distante dallo scarto cronologico; viceversa è una memoria che si sostanzia nel ricordo, dandoci l'impressione di una sua riproposizione materica nel presente, quasi Venera si rivivesse attraverso l'immaginazione di Nadia.
Al tempo stesso, Quello che so di te è anche un libro profondamente autobiografico, intimo quasi, ma di un'intimità che è densa di universalità: quante donne si sono sentite come Nadia, dopo la nascita di una figlia? Quante hanno avvertito il bisogno di ripercorrere le vicende di famiglia, perché dalle radici si trovi anche il proprio posto da occupare in una storia matrilineare?
Non va poi dimenticato il terzo filone presente nell'opera, ovvero il tema del disagio mentale, e come veniva trattato all'inizio del Novecento: la riflessione, che muove dalla storia di Venera, permette di pensare con estrema delicatezza a quante donne sono state internate e trattate in modo invasivo quando ben altre avrebbero potuto essere le cure, senza che queste venissero strappate dalla propria famiglia.
Il pensiero di Nadia Terranova va allora anche al bisnonno, il "granatiere", figura quasi mitica agli occhi della famiglia ma assolutamente secondaria rispetto al ruolo centrale di Venera e delle altre donne della famiglia nella ricostruzione del libro.
L'andirivieni tra passato e presente, spesso annullato dall'incredibile fusione tra questi momenti, condiziona la struttura del libro, volutamente ibrida, tra autobiografia e testimonianza familiare, con qualche momento metaletterario e rapidissime incursioni nella storia della psichiatria. Dunque, non è la linearità a far da padrona in Quello che so di te, ma un ordine capriccioso che alterna all'urgenza della scoperta la riflessione più pacata sull'essere madre e nipote.
GMGhioni
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