La signora nel lago
di Raymond Chandler
Adelphi, 2024
Traduzione di Gianni Pannofino
pp. 288
€ 19,00 (cartaceo)
€ 13,99 (eBook)
Ai tempi dell’università frequentavo assiduamente Philip Marlowe. Il suo cinismo, l’ironia tagliente, l’animo tormentato erano per me irresistibili. Poi, come talvolta nelle storie d’amore, la passione era sbiadita, travolta dal tempo e dall’abitudine. È stato quindi emozionante ritrovarla intatta nel leggere La signora nel lago. Bastano poche righe per riconoscere quella voce, quello sguardo. Noi siamo cambiati forse, ma Philip Marlowe rimane Philip Marlowe, l’epigono di una lunga serie di pallide imitazioni. Continua a essere sfacciato, pungente, poco diplomato. Beve troppo, si mette sempre nei guai, è troppo sensibile al fascino delle belle donne. E poco importa se, oggi più che mai, risulta spesso politicamente scorretto. Lo puoi perdonare a lui, se non alle convenzioni del genere letterario.
Perché Marlowe è un ruvido, ma dal cuore buono; è sempre abitato da una malinconia che graffia, e viene malcelata dal sarcasmo. Ed è maledettamente bravo nel suo lavoro. In questo caso, ad assoldarlo è un pezzo grosso della Gillerlain Company, Mr. Derace Kingsley, che gli chiede di rintracciare la moglie, scomparsa da più di un mese, in circostanze che non consentono il coinvolgimento della polizia. L’incarico è ghiotto, perché ben retribuito e apparentemente semplice, ma i fili si ingarbugliano molto presto: la donna infatti sembra intenzionata a far perdere le sue tracce, e le sue comparse intermittenti turbano più che rassicurare.
Al contempo, un cadavere emerge dalle acque scure di un lago, e ci si inizia a chiedere in che modo i due casi possano essere correlati. Il procedere di Marlowe sembra avere un andamento divergente e imprevedibile, privilegiare le vie collaterali alle strade maestre, ma si tratta in realtà di un metodo preciso, quello dell’investigatore che segue palmo a palmo ogni traccia possibile («non è una teoria. È solo una possibilità. Se la ignorassi, però, non sarei un detective», pp. 196-197).
Il romanzo viene pubblicato per la prima volta nel 1943. C’è la guerra, che però rimane lontana sullo sfondo della narrazione, come un’ombra inquietante che non si vuole guardare per non darle corpo. Si ritrova nel testo la precisione linguistica di Raymond Chandler, il suo gusto per le descrizioni ambientali, per i singoli tratti caratterizzanti, che vengono fatti balenare attraverso le notazioni pungenti dell’investigatore e permettono di inquadrare in un attimo i personaggi, dal punto di vista fisico e morale («Aveva orecchie enormi, lo sguardo amichevole e mandibole che ruminavano lente: pareva pericoloso quanto uno scoiattolo, ma molto meno nervoso. Mi ha ispirato subito una simpatia senza riserve», p. 60). Lo stesso sguardo del detective su di sé oscilla tra ironia e disincanto:
Nessuno ha urlato, nessuno è corso fuori. Nessuno ha chiamato la polizia. Soltanto silenzio, sole e tranquillità. Non c’era motivo di agitarsi. Soltanto il solito Marlowe, che scopre l’ennesimo morto ammazzato. È uno specialista, ormai. Marlowe il Trova-cadaveri, lo chiamano. Lo seguono direttamente con il furgone dell’obitorio per stare alla pari con il lavoro. Un tipo a posto, tutto sommato, a modo suo ingenuo. (p. 128)
Gli ingredienti dell’hard boiled ci sono tutti: atmosfere languide e fumose, poliziotti rudi e ottusi, o grandi lavoratori; femmes fatales dalla torbida sensualità, che non sono insensibili a qualche motto di spirito; il whisky e qualche dollaro come lasciapassare in grado di aprire quasi tutte le porte…
Marlowe agisce spinto dal suo senso etico, che è plastico, talora non convenzionale, ma insopprimibile. Questo lo porta a confliggere molto spesso con le autorità dal manganello facile, e a provare invece istintivo trasporto per i diseredati della terra. Marlowe è l’antieroe che non ha quasi mai la pistola quando servirebbe, ma tiene sempre l’asso nella manica, e una battuta in punta di labbra. Pur condividendo volentieri le sue informazioni, tiene sempre l’ultima intuizione per sé, per potersela giocare in extremis, nel momento dell’agnizione, o del disvelamento. Anche in questi casi, tuttavia, l’attitudine del detective non è quella trionfante del detective classico: come in ogni noir che si rispetti, anche in questo caso la realtà è troppo complessa per poter essere sbrogliata facilmente, e non c’è quasi mai spazio per il lieto fine.
La terra di nessuno che si apre tra
il bene e il male è friabile, confusa, e tutti ne risultano in qualche modo
contaminati. Il detective sa quindi fin troppo bene che non è possibile gioire
troppo di un risultato, perché quasi sicuramente sarà solo temporaneo, e sarà
costato caro. Rimane allora, soltanto, qualche piccola soddisfazione legata al
qui e ora, e la volontà inesausta di
ripartire ogni giorno.
Carolina
Pernigo
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