Dovrei bloccarlo, rimuoverlo dai contatti. Nel primo mese l’ho tolto e rimesso non so più quante volte. Poi mi ha tolto lui e mi ha richiesto l’amicizia lui. Ho accettato, eliminato, bloccato e sbloccato mille volte. Alla fine è rimasto fuori dalla bolla ma visibile. Quindi se voglio posso andare sulla pagina e strafarmi della sua immagine pubblica in dosi massicce. (pp. 13-14)
L’amore
ha sul cervello effetti simili a quelli prodotti dalle droghe: entrambi mettono in moto
la produzione di ormoni e neurotrasmettitori come la dopamina, noradrenalina, la
serotonina, e di conseguenza ci fanno sentire superattivi, vitali, energici,
concentrati soltanto a ricercare costantemente l’oggetto del nostro desiderio. Poi
nel tempo le cose si stabilizzano, si crea un legame profondo e la persona (o
la sostanza) diventano parte della nostra quotidianità al punto da non immaginare
un’esistenza priva della sua presenza. E cosa accade – in entrambi i casi –
quando l’altra componente di questo nuovo binomio viene a mancare, magari per
una motivazione che non dipende da noi? Crisi d’astinenza, dolore emotivo e
fisico, incapacità di concentrarsi su altro che non sia quella cosa. A
volte, una vita distrutta.
Degli effetti
della fine di un amore ci parla bene il nuovo romanzo di Francesca Marzia
Esposito, questo Materiali resistenti che del rapporto fra resistenza –
appunto – e fragilità fa la propria bandiera a partire dalla copertina, con quella
silhouette di un fiore sul punto di scomparire, e che sembra il vestito soffice
ed etero di una ballerina. L’oggetto del desiderio venuto a mancare è Mauro, un
uomo come tanti: divorziato, con una figlia... a ben guardare non sappiamo
molto altro di lui se non l’immagine che Quintana, la protagonista, ha creato
nel tempo. Un’immagine distorta come quella che rinveniamo nei
frammenti di uno specchio rotto, ciascuno dei quali riflette un dettaglio incoerente, una molteplicità disordinata incapace di restituire l’intero, il
vero. Sin dalla prima pagina Mauro è in quasi ogni riga ma solo per sentito dire.
La sua
assenza è compensata dalla sua ingombrante presenza sui social – dove scrive,
mette immagini, racconta di sé e della nuova fiamma, con la quale scatta subito
una competizione che però è solo interiore, perché la vita di Mauro e
della nuova donna che gli sta accanto è separata, distante, avviene in
differita – ma soprattutto è compensata dalla presenza nella mente di Quintana,
che quasi non riesce a formulare un pensiero senza dover tornare a lui. Ogni
passo, dentro e fuori casa – in quella Milano algida e frenetica descritta così
bene da Esposito –, ogni conversazione con l’amica Agata riporta a Mauro. Eppure
Mauro non compare spesso nelle parole di Quintana. Esiste, persiste e insiste
soprattutto nei suoi pensieri. Quintana infatti “non dice”, come sottolinea la
narrazione serrata di Esposito. Non dice, non parla di lui, lo ricaccia dentro
di sé come fosse un segreto da proteggere o qualcosa di incomprensibile agli
altri. Anche nelle sedute con lo psicologo, Quintana “non dice”. Parla di altro,
racconta fatti e fattarelli, pettegolezzi, quotidianità, ma il vero problema –
quell’assenza che è astinenza – non viene fuori. E così passano i giorni, e dove
non interviene la risolutezza di una donna distrutta interverrà – forse – il tempo
e la sua capacità di appiattire ogni cosa, come la marea che abbatte i castelli
di sabbia sulla battigia.
Gli ingredienti di cui è composto questo libro sono pochi ma ben congegnati: una manciata di donne,
ciascuna con le proprie fisse; una casa enorme e vuota; un quartiere appena
accennato nel quale avvengono fatti a volte poco rilevanti; una fonte di
dipendenza che sembra non voler scomparire. Con questi pochi ingredienti Esposito
costruire Materiali resistenti, alla maniera con cui aveva già costruito
il primo romanzo, quel La forma minima della felicità pubblicato con
Baldini + Castoldi ormai dieci anni fa. Come altri romanzi basati su pochi ingredienti,
il rischio è sempre quello di arrivare a un’impasse nella parte centrale, in
quel momento che spesso è di passaggio fra l’incipit e la conclusione. Anche qui
il rischio si avverte: le pagine della seconda metà del libro sono un po’ più
incerte, frenate, perdono parte della lucidità che caratterizza il potente
inizio, prima di scivolare verso il morbido finale. Esposito scrive
meravigliosamente, quindi il pericolo viene scongiurato dalla sua penna che sa
tagliare, affettare, sminuzzare gli ingredienti prima di ricomporli in un amalgama
ben definito. Eppure persiste questa sensazione di quasi pericolo, l’idea che
una o due pagine in più avrebbero fatto impazzire il composto.
Per fortuna – per bravura – ciò non accade, e il risultato è un romanzo ben strutturato, con pochissime sbavature e molti passaggi memorabili, in grado di parlare a ciascun lettore di quell’amore che ci ha divorato e infuocato l’animo, che ci è sembrato infinito ed enorme, e che poi ci ha lasciati svuotati come la carta di una caramella, gettata a terra accanto al bidone della spazzatura. Quell’amore, insomma, che ci ha costretti a ricostruirci, e che oggi ricordiamo quando uno dei nostri social ci ripropone di noi un’immagine sbiadita ed erosa dal tempo.
David
Valentini
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