Traduzione di Andrea Bernardini
«Tre puntini… tra parentesi». Lo avremo pensato in tanti, mentre prendevamo ordinatamente posto su un vecchio tram milanese che da lì a qualche minuto sarebbe partito dalla fermata di via Cesare Cantù per fare un lungo giro della città, in compagnia dello scrittore svedese Björn Larsson e di una cospicua rappresentanza della redazione di Iperborea (suo storico editore italiano). Pensiamo ai tre puntini perché è con questa immagine che l’autore definisce l’esperienza del pendolarismo – tema ovviamente portante del suo ultimo libro, Filosofia minima del pendolare (Iperborea 2005, traduzione di Andrea Bernardini): un momento irrilevante, di vita sospesa, una ellissi più o meno vistosa dentro la trama delle nostre giornate.
Il tram parte puntualissimo. La serata è limpida e il traffico dell’ora di punta sta piano piano scemando. Presto la voce di Nicola Bonimelli (che ha letto l’audiolibro per Emons) si fa spazio nel chiacchiericcio carico di aspettativa e accompagna lo sferragliare delle rotaie con la lettura di alcuni frammenti tratti dal libro. L’autore ascolta attento e guarda i volti che lo circondano, preparandosi a rispondere alle domande degli intervenuti. La più inevitabile, lo sa, è come sempre la più scontata: perché proprio un libro sul pendolarismo?
La prima ragione è naturalmente autobiografica: Larsson è stato (ed è tuttora) pendolare per scelta da più di quarant’anni, prima per ragioni professionali e adesso sentimentali – la sua relazione con una donna italiana residente a Sedriano lo spinge a spostarsi ogni mese tra la Svezia e la provincia di Milano. Condividere la propria (dis)esperienza di pendolare, raccontare le sfide e le frustrazioni, gli incontri e le umiliazioni, appare allora come un modo per riscattare le innumerevoli ore spese tra navi, autobus o treni, conferendo loro la dignità sommessa della letteratura.
Ma c’è una ragione più profonda, insita nella natura ibrida, disforme e collettiva del pendolarismo, che non è viaggio né sosta, non è piacere né sofferenza: questo spazio di mezzo offre l’angolatura perfetta per spalancare uno sguardo politico sul mondo. È da questa prospettiva volutamente marginale che lo scrittore esamina la realtà, per coglierne le sfumature meno evidenti e denunciarne alcune storture: l’arresa alla logica negletta dell’utile e del profittevole a tutti i costi, la fretta dell’avere tutto e subito, l’incapacità di godere anche dei momenti di noia o di lentezza.
Non a caso, il secondo sostantivo del libro è «testimone», traduzione letterale dello svedese «vittnet», con cui la voce narrante in terza persona si riferisce al protagonista di Filosofia minima. Egli è il soggetto che osserva e annota, il punto radiale da cui si espande la comprensione del mondo. La scelta del sostantivo non potrebbe essere più affascinante. Nella lettura del filosofo Giorgio Agamben il/la testimone è la figura che, avendo partecipato personalmente ai fatti, si fa garante di una verità soggettiva che sfida l’ordinario e le possibilità di comprensione altrui. Nel suo libro, colmo di un’ironia tagliente, Larsson compie invece il processo inverso: offre la sua esperienza di fatti minimi e insignificanti, lasciando che sia il lettore a coglierne in filigrana lo spessore.
Sfruttando il distacco prodotto dalla terza persona lo scrittore disinnesca la tentazione al tono epico, lasciando spazio a un discorrere sommesso, a un pensiero soffuso. E così, negli appunti sparsi di cui è composto questo denso personal essay, ci si muove tra un’ampia varietà di temi: dalla fisica dall’ontologia, dalla storia dei trasporti alla critica della burocrazia, dalle migrazioni alle politiche di welfare, dalla denuncia della logica disfunzionale del capitalismo alla condivisione di vicende personali, incontri e disavventure. Con il suo stile secco e raziocinante, ma anche molto lirico a tratti, l’autore dialoga con i lettori e fa un resoconto della sua vita, di cui il pendolarismo è solo una sineddoche dichiarata.
Ma in ultima analisi quello di Larsson è soprattutto il racconto di un progressivo e consapevole sradicamento: la scelta di viaggiare giornalmente, i continui trasferimenti, gli anni passati sui mezzi o a vivere in barca hanno dissolto in lui l’idea di casa e di appartenenza a un luogo specifico o a una nazione. Questo aspetto ha una doppia valenza. Da una parte, la stoica accettazione di questo fatto lancia un messaggio politico forte, in un’epoca di rigurgiti patriottici e nazionalistici tanto sentiti quanto violenti. Dall’altra parte, si tratta di una lucida confessione, rivolta al pubblico ma soprattutto a sé stesso.
Il libro si chiude con il racconto di un sogno ricorrente in cui l’autore torna a casa dopo una lunga assenza, ma non riesce a trovare il suo appartamento, oppure lo vede in lontananza, ma non riesce ad accedervi. Immaginando l’interpretazione di un analista, la voce suggerisce che questa immagine rappresenti il desiderio di una casa, forse addirittura la «nostalgia di casa»; oppure avanza l’ipotesi che essa manifesti la consapevolezza «che una “casa” non ce l’ha e non ce l’avrà mai», per poi concludere cinicamente che «quest’ultima interpretazione ha comunque un punto a suo favore: concorda con la realtà. Per fortuna».
Ma qui lo stoicismo di Larsson, convincente per tutto il libro, rivela forse una piccola crepa. La prima parola del libro è «Lund», cittadina universitaria svedese in cui lo scrittore ha lavorato e vissuto per anni; la stessa in cui ha ambientamento alcuni dei suoi romanzi e dove si trova l’appartamento del sogno appena citato. Questo luogo, allo stesso tempo concreto e astratto, ci ricorda che uno sradicamento è possibile per definizione solo a partire da una porzione di suolo da cui si viene estirpati, da un atto di violenza e di privazione. Forse è dunque questo, il messaggio nella bottiglia lasciato tra queste belle e divertenti pagine sul pendolarismo: sostituire la parola casa con dei puntini, metterla tra parentesi, è possibile solo per mezzo di un trauma e una dolorosa rimozione. Ma, come ci insegna Lacan, «l’Altro» trova sempre il modo per riaffiorare e riempirci il cuore di un desiderio irrisolto.
È passata un’ora e il nostro tram si ferma davanti alla libreria Il Vicolo, dove ci aspetta un rinfresco e qualche conversazione amichevole. Poi la serata finisce ed è ora di rientrare. Ciascuno sceglie il mezzo di trasporto più comodo e congeniale. Quando raggiungo la stazione della metro più vicina, sto già elaborando queste ultime considerazioni sul libro di Larsson, e la mia mente corre al posto accogliente in cui da li a poco mi troverò a mangiare e dormire, al quartiere elegante e ovattato che lo circonda, alla città vivace, interessante e turbolenta in cui vivo. Eppure anche io mi blocco al pensiero che nessuna di queste cose posso davvero chiamarla “casa”.
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