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Fiorirò ovunque sarò portato. La storia di Edmond Albius e del baccello di vaniglia nel romanzo di Gaëlle Bélem “Il frutto più raro”

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Il frutto più raro. La scoperta della vaniglia
di Gaëlle Bélem
e/o edizioni, 22 gennaio 2025

Traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca

pp. 208
€ 18,50 (cartaceo)
€ 11,99 (eBook)


Per Edmond […] conta una sola verità: la vaniglia può dare frutti fuori dal Messico! Rientra nell’ordine del possibile, non è più soltanto un sogno! Diventa così ossessionato dalla vaniglia, drogato di una liana orfana che ha attraversato metà del pianeta tra quattro tavole di legno. La storia di quell’orchidea gli piace così tanto che vuole essere lui quello che ne scoprirà il segreto […]. (p. 69)

Il frutto più raro racconta una storia vera: la scoperta del frutto dell’orchidea Vanilla planifolia, la spezia più rara e costosa al mondo. La vaniglia è strettamente legata alla storia di Edmond Albius, un ragazzino creolo, figlio di schiavi di colore, che scopre il modo di fecondare il fiore della vaniglia manualmente. Prima di lui, solo qualche botanico era riuscito a ottenere il prezioso baccello facendo incontrare stame e pistilli dell’incredibile fiore, senza però averne compreso pienamente il procedimento. Si era trattato di fortuna, di casualità. Edmond invece, a soli dodici anni, riesce a penetrare il mistero di questa pianta, grazie alla sua forza di volontà e a una pazienza ostinata incredibili.

La scrittrice, Gaëlle Bélem, proviene da Réunion, isola del dipartimento d’oltremare francese, luogo dove si ambienta la nostra storia e ha già scritto un romanzo nel 2020 non ancora tradotto in Italia, Un monstre est là, derrière la porte [Un mostro è lì, dietro la porta, traduzione mia]. È certamente merito della sua penna fresca, ora delicatamente scanzonata e grottesca ora profonda e drammatica, oltre che della strabiliante storia che sta dietro al fiore di vaniglia, se Il frutto più raro è un romanzo che funziona, è un buon libro, diretto a un vasto pubblico di lettori che non smetteranno, come è successo a me, di staccarsi dalle pagine per conoscere gli eventi della vita di Edmond Albius.

Chi conosce questo nome? Io, confesso la mia ignoranza, mi ci sono imbattuta per la prima volta leggendo il romanzo di Bélem e sono davvero soddisfatta di questa lettura: ho scoperto un’autrice interessante, ho arricchito il mio piccolo archivio culturale con la storia di questa spezia e ho riflettuto sulla schiavitù del periodo coloniale. Uno schiavo di colore, per di più dodicenne, è stato capace di fare di una sperduta isola dell’oceano Indiano il primo paese esportatore della spezia più costosa al mondo dopo lo zafferano! 

L’autrice ricostruisce la biografia di Edmond Albius basandosi ora su documenti (soprattutto lettere) ora romanzando: egli entra come una raggio di sole nella vita del trentasettenne malinconico Ferréol Bellier-Beaumont, in lutto per la perdita della moglie Angélique, con cui si era unito in un matrimonio - come il lettore scoprirà -  non propriamente felice, eppure la scomparsa della giovane aveva abbattuto tutta la casa, schiavi compresi. Edmond è un dono di Elvire, sorella di Ferréol e arriva una mattina nella villa tra le braccia di uno schiavo di sette anni:

«E questo cos’è?».
“Questo”, ovvero quel pezzo d’ebano che interponendosi tra la curvatura di un sole pallido e i suoi occhi strizzati gli fa parzialmente ombra. “Questo”, ovvero tre chili e sei etti di carne tenera avvolta come un agnellino in una pezza di lana. “Questo” ovvero un pacchetto vivente di palesi seccature. E apre il biglietto attaccato al polso del bambino.
Da parte di Elvire, la tua cara sorella.
Una nascita per una rinascita. (p. 13)

L’uomo e il bambino saranno da subito inseparabili. Quel «cosino di quarantanove giorni e centocinquanta poppate» (p. 15) rivoluzionerà la vita di Ferréol, sarà davvero per lui occasione di redenzione. Edmond è figlio di schiavi, si è detto: la madre è morta subito dopo averlo dato alla luce nel fienile di casa Bellier-Beaumont e il padre è sparito dopo qualche giorno e di lui non si è più avuto notizia.

[…] Edmond aveva una famiglia o qualcosa che ci somigliava, ma la morte, la schiavitù e le consuete sventure ne avevano velocemente avuto ragione. Dopotutto si trovavano a Bourbon [antico nome di Réunion, ndr], un deserto che il ministero delle Colonie aveva trasformato in un paese di schiavi per tenere l’economia sotto controllo. Si era sperato in un inizio di civiltà e ci si era scontrati contro un grande nulla fatto di montagne frastagliate ai piedi delle quali crescevano qua e là, come verruche, più tuguri dal tetto di paglia che ville con la copertura a scandole . (p. 16)

Bélem mette sin dalle prime pagine il lettore davanti al dramma della schiavitù, una presenza ingombrante nella vita di Edmond e di molte altre persone che hanno vissuto sulla loro pelle l’umiliazione del colonialismo. Durante l’infanzia il piccolo non ha consapevolezza della sua condizione: coccolato, viziato da Ferréol che lo porta nel suo giardino e nelle sue piantagioni a mostrargli la vita delle piante e a trasmettergli la passione per la botanica. Questo «Bruto nero di un Cesare bianco» (p. 21) diventa ben presto un genio della botanica: osserva, sperimenta e impara al fianco del suo «paparino» Ferréol, che cerca di nascondere agli altri schiavi invidiosi quanto straveda per quel bambino. Quel giardino 

per Edmond è una tavolozza  dai colori vivaci che va scoprendo da quando Ferréol o lo porta a spasso in una carriola. Se paparino non avesse piantato orchidee a tutto spiano, se non gli avesse citato uno dopo l’altro i loro nomi tanto suggestivi, forse il suo orizzonte si sarebbe limitato a quella canna da zucchero che i suoi fratelli d’esilio tagliano e accatastano tutto il giorno. (p. 24)

Edmond impara i nomi ufficiali delle piante e dei fiori, quei nomi altisonanti sono di origine latina ed è per questo che il cognome che sceglierà per sé una volta affrancato, da adulto, sarà Albius, bianco: il colore del potere, delle cose e delle persone che contano. È in quegli anni che sente raccontare della storia della vaniglia, una orchidea che produce misteriosamente un baccello profumato molto apprezzato. Lo stesso Ferréol che manualmente feconda zucche e altri ortaggi e fiori, da anni prova a scoprire il metodo per produrre la bacca di vaniglia, ma ogni tentativo, per quanto le sue dita siano esperte e l’esperienza più che trentennale, non vi riesce. Edmond allora farà della vaniglia l’obiettivo della sua giovane vita: ha dodici anni quando, dopo svariati tentativi e dopo sfortunati quanto inconcludenti «coiti vegetali tra stami e pistilli sotto gli occhi di qualche coccinella» (p. 78) centrerà il target. Possibile che nessun botanico si sia accorto di quel sottile strato membranoso che protegge l’organo maschile del fiore di orchidea?

Edmond accosta gli occhi a un fiore, si fa vicinissimo, e comincia a capire. Sul fiore di vaniglia un ostacolo naturale, una specie di porticina, il rostello, separa l’organo maschile  da quello femminile.  È una membrana sottile, un delicato imene di protezione che impedisce qualunque fecondazione. (pp. 82-83)

Una volta rimosso quel cappuccio dallo stame, il fiore è fecondato e il piccolo Edmond può gridare pieno di gioia il suo Ho trovato!  davanti a una schiera di schiavi curiosi e in fervente attesa. Il lettore troverà nel romanzo anche la storia di Ferréol e della sua passione per la botanica e dell’amore verso Angélique che poi sposerà. L’autrice ha architettato bene la struttura di questo romanzo per non lasciare il lettore più esigente a rigirarsi tra curiosità e dubbi su quello che poi è stato il padre adottivo del prodigioso Edmond. Lascia piacevolmente sorpresi pensare a quanto con un libro che non è poi così corposo, duecento pagine circa, il lettore abbia conosciuto non una storia, ma ben due, quella di Edmond e di Ferréol, affezionandosi ai due, amando la loro passione per i fiori e i loro sogni. 

È un libro che non dà spazio al superfluo, sa tenere ben desta l’attenzione e il coinvolgimento del lettore grazie a uno stile che sa alleggerire i momenti più tristi e drammatici con l’arte dell’ironia sottile. La stessa che consente all’autrice di lanciare strali sulla prepotenza dei paesi colonizzatori con finezza e acume: Edmond resterà povero, agli schiavi non è permesso di diventare famosi, essi non contano nulla, la loro vita appartiene ai loro padroni. È per questo motivo che solo in pochi conoscano il suo nome, quindi sono grata a Gaëlle Bélem e a tutti gli scrittori che fanno conoscere al mondo le storie di quegli uomini e quelle donne che non hanno potuto godere del riconoscimento dei loro sforzi e del loro genio, oscurati dall’ingiustizia e dalla povertà.

Si chiama Edmond, ha dodici anni. In un Ottocento scialbo come la pioggia, in cui il popolo mangia per nutrirsi, senza stare a pensare al gusto, alla presentazione o al profumo degli alimenti, Edmond ha appena prodotto una nuova spezia. In un secolo in cui la gente è abituata a due soli sapori, l’amaro della momordica e l’acido della limetta, in cui lo zucchero di canna è raro, in un secolo in cui la patata dolce, il pane e l’acidità di stomaco trionfano, Edmond a dodici anni apporta al mondo un sapore nuovo, un aroma dimenticato dal Cinquecento, la vaniglia. (pp. 84-85) 

Marianna Inserra