di Helga Schneider
Oligo, 2024
€ 18,00 (cartaceo)
Originaria della Slesia, e da anni residente in Italia, Helga
Schneider ha raccontato la sua storia all’interno de Il rogo di Berlino, forse la sua opera più famosa. Oltre a quella,
però, negli anni, l’autrice ha continuato a dedicarsi alla causa della memoria,
esplorando in romanzi per adulti e ragazzi aspetti più o meno noti del sistema di controllo nazionalsocialista,
della violenza perpetrata a danno
dei deboli e dei non allineati: in In nome del Reich raccontava gli aspetti più oscuri dell’Aktion T4, in Bruceranno come ortiche secche la
persecuzione degli omosessuali, sempre con un
linguaggio piano, diretto, incisivo. Erano quindi molto alte le mie
aspettative rispetto a questo volume, rilanciato da Oligo editore in prossimità
del Giorno della memoria. Dispiace un po’, va detto, non ritrovare la veste
grafica dei romanzi precedenti, in favore di una proposta visivamente più
aggressiva che non risulta davvero necessaria. Il tono stesso della narrazione,
del resto, appare leggermente mutato.
Il volume si apre mostrando due ragazzi poco più che ventenni, Adi
e Rudi, impegnati a fare esperienza del mondo adulto, lontani da casa: sono
appena arrivati a Monaco, e le loro alte aspettative sono altissime. Si deve
compensare, si scoprirà, una precedente e totalmente fallimentare esperienza
viennese: là, al cuore dell’Impero, le ambizioni giovanili si erano scontrate
con le asperità di una quotidianità che non aveva nulla dell’idillio. Adi in
particolare, ovvero Adolf Hitler, aveva visto stroncate le sue speranze di entrare all’Accademia d’Arte, ed era
stato costretto a vivere di espedienti,
vendendo acquerelli e piccole tele, dormendo spesso negli ospizi per gli
indigenti. Adesso, al contrario, si presenta l’opportunità di una nuova vita,
in un paese che rende onore alla propria nomea, che non appare inquinato dalle
politiche di un «parlamento multietnico
tutto risse e niente fatti» (p. 11).
Nell’atto unico di Stefano Massini Eichmann. Dove inizia la notte, Hannah Arendt, che si immagina dialogare con il criminale di guerra, si interroga sulle origini del male («Nella storia c'è sempre chi fa il male […]. Ma di tanto in tanto – e quelli sono i tempi bui – c’è […] chi riesce ad arrivare un passo dopo ancora: far sembrare a tutti che il male sia una cosa del tutto regolare»). Il volume di Helga Schneider si pone lo stesso interrogativo, tendendo dei fili – dapprima invisibili, poi sempre più evidenti – tra l’inizio e la fine, tra la giovinezza e l’esordio politico di Hitler e i suoi ultimi giorni nel bunker berlinese. Le domande iniziali, che si possono considerare riflessi di un’unica impossibile domanda («com’è possibile che […] un uomo sia potuto diventare uno dei più efferati e crudeli dittatori della storia moderna?», p. 17), vengono riprese soltanto nell’appendice conclusiva (“Nascita di un dittatore”).
Allo stesso tempo, l’avvio e la conclusione della
vita di Adolf Hitler si rincorrono, entrano a far parte del disegno complessivo
tratteggiato dall’opera, in cui la narrazione
degli ultimi giorni del Reich procede dapprima per frammenti, attraverso
una narrazione non lineare. Lo scopo è primariamente informativo, e molti
episodi risulteranno noti a un lettore che già conosca la storia della seconda
guerra mondiale. Di alcuni dettagli non si riesce in verità a cogliere la funzione
(se l’inserto sulla salute cagionevole di Hitler trova infatti senso nella
descrizione del suo abbrutimento, più dubbia risulta l’utilità delle specifiche
sui suoi denti).
In generale, ciò che appare degno di maggior interesse è proprio
la rappresentazione dell’entourage che circonda il Führer nel
momento della caduta: da Speer a Bormann, da Goebbels a Eva Braun, ciascuno dei
comprimari trova un suo spazio, viene osservato nell’evolvere (o nel permanere)
del suo giudizio sulle sorti della Germania, e del nazismo. Nulla del Reich
degli ultimi giorni trasmette più l’idea di forza e impermeabilità costruita ad
arte dalla propaganda. Sembrano lontanissime le parole che Goebbels rivolgeva a
Hitler dopo il Putsch di Monaco: «Come un
astro che sorge, voi siete apparso ai nostri occhi meravigliati, avete compiuto
miracoli per illuminare le nostre menti. In un mondo scettico e disperato, ci
avete ridato la fede» (p. 55).
La seconda sezione del volume è dedicata a ripercorrere, giorno per giorno, gli ultimi momenti di vita di
Hitler, dal 20 al 30 aprile del 1945. La resistenza
a oltranza, propagandata a spese della popolazione e «senza pudore» (p. 69) appare ormai una pura farneticazione. Mentre l’Armata Rossa stringe la sua morsa
sulla città di Berlino, nel bunker dell’ultima resistenza si consuma un «festino delirante», in cui la cerchia
ristretta di Hitler, ormai condannata, brinda e festeggia, travolta da «un’allegria mortale» (p. 74). La città
si accartoccia su se stessa, tra le macerie, la cenere e i gli incendi causati
dai massivi bombardamenti. Le case
non hanno più acqua né luce, e la gente muore di fame, mentre l’appello
all’ultimo sforzo bellico porta ad arruolare nella milizia cittadina tutti i
maschi residenti, a partire da un’età sempre più bassa.
Nel bunker il clima di tensione cresce: un Hitler che è sempre più la maschera grottesca di sé
stesso fatica a mantenere il controllo e anche alcuni tra i suoi
fedelissimi iniziano a disertare o a prendere iniziative nell’ombra – tutte
fallite, o condannate con la massima severità. L’impressione che ne deriva è
quella di un edificio che sta
collassando, inesorabilmente – e la datazione progressiva risuona come un
countdown. Nel frattempo, il Führer conduce le sue giornate in uno stato di scollamento dal reale: continua a non
alzarsi prima di mezzogiorno, e a bere il the con Eva Braun e le segretarie
rimaste con lui. Subitanei scatti d’ira lo alterano, all’arrivo di notizie
sempre più sgradite, e si inizia a prospettare l’atto definitivo. Determinato a
non farsi prendere dai russi, Hitler progetta il suicidio per sé e per i membri
della cerchia dei fedelissimi, rimasti con lui nel bunker. Si sottrae alle sue
responsabilità, constata a più riprese Frau Junge, che gli è stata devota ma
ora inizia ad aprire gli occhi.
Rispetto ai volumi precedenti, Hitler. Mai prima di mezzogiorno appare meno organico: la natura discontinua della narrazione da un lato restituisce l’impressione di un racconto orale, di una condivisione della memoria, dall’altro non convince del tutto perché non sempre appare pienamente dominata, tanto più che alcuni elementi ritornano senza uno scopo apparente e si notano anche alcuni errori non irrilevanti scappati in fase di editing (ad esempio, la collocazione dell’offensiva delle Ardenne sul fronte orientale). Sarebbe stato interessante anche, nell’ottica del lettore, un piccolo apparato bibliografico che indicasse le fonti delle citazioni riportate, perché l’impostazione è sì romanzesca, ma quelli che vengono proposti come dati storici avrebbero bisogno di un’impalcatura di supporto.
Nel complesso, quindi, Mai prima di mezzogiorno è un’opera che fornisce un quadro verosimile della liberazione di Berlino e della morte di Adolf Hitler, ma non è forse quella da cui cominciare se si vuole avvicinarsi per la prima volta alla bella scrittura di Helga Schneider.
Carolina Pernigo
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