La piccola Mary Flan è nella sua stanza; i genitori, Regina ed Edward Francis, sono al piano di sotto. È una sera come tante nella casa di Savannah, in Georgia, prima metà del Novecento. Dalla stanza della bambina arrivano un borbottare e dei rumori strani, dei colpi, come se stesse prendendo a pugni qualcosa. O qualcuno. Mary Flan in effetti sta cercando di prendere a pugni il suo angelo custode. Risponde così ai genitori, tra la costernazione della madre e il divertimento del padre. Quel che è certo, è una bambina originale e, Edward Francis ne è certo, dimostrerà di avere talento da vendere. Per cosa ancora non è del tutto chiaro, ma ne è convinto. Quella bambina, Mary Flan, diventerà la donna che conosciamo come Flannery O’Connor. Aveva decisamente ragione Edward Francis, anche se purtroppo non fece in tempo a vedere la carriera straordinaria di sua figlia, scomparso quando lei era ancora una ragazza, lasciando la figlia e la moglie da sole con il loro dolore.
Da quel giorno decise che non avrebbe mai parlato del padre. Non era per dimenticarlo più in fretta, lei non voleva dimenticarlo mai, ma era perché non si sarebbe mai sentita sicura nel farlo, mai compresa. Nemmeno da sua madre. (p. 43)
Romana Petri parte da quella stanza, dalla lotta immaginaria di una bambina contro il suo angelo custode, per costruire un romanzo sulla figura leggendaria di una scrittrice che tanto profondamente ha influenzato il canone letterario del Novecento, seppure nello spazio breve del tempo che le è stato concesso. Sottolineo fin da principio la natura di quest’opera, così da evitare equivoci su ciò che il lettore possa o meno aspettarsi: La ragazza di Savannah, appena uscita per Mondadori, non è una biografia né una biografia romanzata, ma un romanzo, che si innesta si su un personaggio realmente vissuto e lo scarto tra realtà e invenzione letteraria è totale. Non facciamo quindi l’errore di cercarvi imprecisioni biografiche o di domandarci se le cose narrate siano andate davvero come Petri racconta, gli episodi, i dialoghi, gli stralci di lettere e conversazioni. È un romanzo, come puntualizzato appena sotto il titolo, che nasce da una conoscenza approfondita della scrittrice e della sua opera, tra testi originali, saggi, documentari, interviste, lettere, materiali di varia natura. Non è una biografia, dunque, né un saggio critico, pur mantenendo il tono della prima e numerosi spunti di riflessione tipici del secondo. Definire questi confini è fondamentale per entrare nell’opera e fare le dovute considerazioni, anche se poi non è così facile tenerli a mente, soprattutto quando si ama Flannery O’Connor e la si insegue da molto tempo in quel suo territorio del diavolo.
Quella di Petri dunque è la storia di una ragazzina cresciuta nel profondo Sud degli Stati Uniti, un luogo, una cultura e un’appartenenza che saranno suoi per tutta la vita, indipendentemente da dove si trovi, da quello che scriva. Radici e un’etichetta, quella di scrittrice del Sud, che le starà un po’ troppo stretta per la marcatura negativa che molto spesso si lega al regionalismo, specie di quella zona. È Mary Flan, dunque, prima e più di Flannery O’Connor, che cresce in una piccola cittadina, si sposta con la famiglia e per un certo periodo frequenta altrove scuola e poi università, prima di stabilirsi nella fattoria che sarà la sua casa per tutta la vita. Una casa che come tutti i figli immaginava di lasciare a un certo punto, ma dalla quale non andrà mai via se non per brevi viaggi: è molto giovane quando le viene diagnosticata una malattia rara, la stessa che anni prima aveva ucciso suo padre, il lupus. Dai sintomi alla diagnosi – a lei non rivelata immediatamente – passa del tempo, ma la salute di Mary Flan è già chiaro sia compromessa. Riuscirà a rubare molto più tempo di quello che ebbe il padre, morto appena tre anni dopo la diagnosi, tra innumerevoli cure, ricoveri, riprese e cadute, finendo per diventare un tutt’uno con quella malattia che così profondamente ne ha determinato la vita, la mancata autonomia, forse la scrittura stessa. E Andalusia, la fattoria dove vive con la madre e i suoi amatissimi pennuti, diventa il centro della sua esistenza, il luogo da cui creare il proprio mondo letterario, da cui si allontanerà per periodi sempre più limitati.
In quei giorni pensò che, a differenza degli altri scrittori, lei doveva trovare a casa ciò che loro trovavano andando in giro per il mondo. E non volle patirne, anzi, volle trovarci il suo sugo. Arrivò a considerarla una grande fortuna. (p. 118)
La scintilla della scrittura si accende precocemente e già a dieci anni scriveva un romanzo che il padre fece rilegare. Ma la strada non è ancora delineata, ci sono altre cose da esplorare: i dipinti, le vignette e soprattutto l’allevamento di polli e poi di pavoni, che saranno la sua gioia. Prosegue gli studi, nei quali non dimostra talenti particolari, si iscrive all’università e frequenta un corso di giornalismo. Poi, il primo corso di scrittura creativa esistente in America e la scoperta della propria voce. Intraprende una strada dalla quale non tornerà mai indietro, nonostante sia accidentata, impervia da percorrere nelle sue condizioni fisiche sempre più precarie, nonostante le incomprensioni. È la famiglia che per prima rimane sconcertata da quello che scrive, non lo comprende: la accusano di scrivere sempre di balordi, lei, una così brava ragazza cattolica del Sud. Ecco, la fede, poi, altra questione spinosa: i suoi racconti sono intrisi di violenza, il diavolo cammina tra quei poveracci, non c’è redenzione né grazia. Ma la grazia è proprio lì, viene fuori dal male, il divino a rompere l’equilibrio di un mondo secolare e materialistico, il mistero che lo attraversa. Continua a scrivere, «storie “strane come la morte” e che “bruciavano di dolore e speranza”» (p. 44), racconti, romanzi, pagine «di piombo e fuoco» (p. 84).
Non scriveva ancora molto, ma le era ben chiaro che cosa volesse scrivere: il suo mondo del Sud, la sua violenza, le anomalie, la mostruosità, le cose che succedono quando si perde l’unica strada da percorrere. Non si poneva il problema se i lettori avrebbero capito le sue vere intenzioni. (p. 60)
I lettori spesso faticano in effetti a comprenderla o lo fanno solo in parte; riceve moltissime lettere nella sua fattoria, a numerose delle quali risponde, intessendo una rete di rapporti epistolari che la accompagna per tutta la vita. Il suo nome, l’identità che si è scelta, Flannery O’Connor, si fa strada nel mondo letterario, pubblica racconti su diverse riviste, firma un contratto editoriale, riceve riconoscimenti e premi, tra cui il prestigioso O'Henry per ben tre volte; è chiamata per conferenze, corsi, discorsi agli studenti. Non sempre si trova a suo agio di fronte al pubblico, ai suoi lettori, spesso le domande la irritano, viene fraintesa; altre volte è un fiume in piena, le sue parole incendiano la platea, le sue considerazioni sulla scrittura fissate come comandamenti. È sempre più sfiancante tornare da quei viaggi, ma sono anche l’occasione per vivere «l’illusione di un po’ di autonomia». (p. 111) Per poi tornare a casa, alla fattoria. Da Regina. Non esisterebbe Flannery O’Connor senza quella donna.
Nella fattoria i compiti erano chiari. Regina si occupava delle questioni pratiche, Mary Flan del mondo letterario che, non potendo più raggiungere tanto facilmente, qualche volta ospitava in casa. La sua fama stava crescendo e non erano pochi gli ammiratori che le scrivevano lunghe lettere nella speranza di essere invitati in quell’esotica fattoria per un tè. Solo raramente riusciva a partire per brevi viaggi. Si trattava di incontri e conferenze e Regina organizzava tutti gli spostamenti. Ma non la seguiva. Avrebbe voluto ma non lo faceva. (p. 111)
Rimasta vedova precocemente e con una figlia malata, Regina non indugia mai nel dolore, non lascia trasparire la sofferenza; è una donna del Sud, è stata educata in un certo modo. Prega, prega intensamente il Signore di avere la forza di accudire la figlia fino all’ultimo e poi di potersene andare un attimo dopo di lei. Non si mostra mai debole, sconfitta, addolorata. È un generale, i rapporti tra lei e Mary Flan non sono sempre facili, ma è la vita che è capitata a entrambe, sono la famiglia che sono. Regina non nasconde alla figlia di non capire niente di quello che scrive, si addormenta dopo poche pagine dei racconti che le fa leggere per prima, si preoccupa per le critiche che riceve dalla famiglia, dai vicini. Ma la sostiene sempre, indipendentemente da tutto. Capisce che anche alla fine per Mary Flan, per Flannery O’Connor, «non scrivere è molto peggio di scrivere» (p. 202).
Quella de La ragazza di Savannah non può essere una storia a lieto fine, non nel senso tradizionale, e neppure la finzione del romanzo può cambiare il tragico destino di Flannery O’Connor, morta a trentanove anni per complicazioni di un intervento e il risvegliarsi del «lupo rosso» come definiva la propria malattia. Sono pagine per loro natura intrise di dolore, eppure riescono anche a farci penetrare nel mistero della scrittura e a far rivivere se non la più veritiera una delle forme possibili di Flannery O’Connor, in una complessità crescente, dove fare spazio all’identità della scrittrice, ai rapporti col mondo letterario, aprendo a numerose riflessioni e spunti. La scrittura di Petri si fonda sulla profonda conoscenza dei testi di O’Connor, sulle ricerche minuziose, su cui innesta l’invenzione letteraria ma riuscendo allo stesso tempo a restituirci un ritratto che poco importa alla fine quanto sia aderente al modello in carne e ossa: vive di ogni pagina scritta, delle lettere, dei dialoghi di chi l’ha incontrata, della leggenda stessa che intorno a quella scrittrice di Savannah si è creata.
Poco incisivo nella parte iniziale dell’infanzia – a quanto pare non la dimensione ideale di Petri –, si sviluppa poi in un crescendo interessante, cui perdoniamo facilmente anche alcune digressioni e lungaggini. Nell’anno del centenario della nascita di Flannery O’Connor (il 25 marzo), La ragazza di Savannah apre a molti spunti e suggestioni sul mistero della scrittura, sull’influenza della malattia, il rapporto con la madre, la vita ritirata, il tempo. Pagina dopo pagina mi sono interrogata spesso su questi aspetti, ripensando a tutti i racconti letti, ai due romanzi, alle raccolte di saggi e lettere, con cui ho nutrito negli anni la mia ossessione per Flannery O’Connor e la sua scrittura selvaggia, brutale, grottesca e vera. E se scoprirla in questa forma, attraverso il romanzo di Petri, può avvicinare nuovi lettori ai racconti di O’Connor non può esserci miglior obiettivo. Rinunciando all’accuratezza di una biografia Petri non mette però da parte il rigore dei suoi anni dedicati allo studio di O’Connor (di cui, tra l’altro, ha curato la bella prefazione alla raccolta Il geranio e altre storie, uscita per Minimum Fax nel 2023) e il testo è disseminato di preziose considerazioni sulla sua opera, sulla sua ricezione, sul mondo in cui visse, aprendo una finestra sulla poetica di O’Connor.
Molte etichette sono rimaste appiccicate addosso a Flannery O’Connor, molte letture superficiali o incomprensioni sulla sua opera, ma c’è un punto – e qui la citazione arriva proprio dalla fonte originale – su cui l’autrice è stata lapidaria per via delle troppe considerazioni distorte che ne sono state fatte: «[…] se scrive come scrive è perché è cattolica. Non benché sia cattolica» (p. 149). In modo simile risponderà con i suoi libri a chi le chiede del Sud che rappresenta nelle sue storie, di quel grottesco che è chiamato tale solo al Nord ma che per lei, per loro, non è altro che realismo. Rinuncio alle etichette, allora, io per prima che molto spesso mi ritrovo a usarle per segnare un confine tra generi e forme, mi accontento di aver penetrato un poco di più quel mistero mai davvero svelabile della scrittura di Flannery O’Connor, una scrittura che mirava sempre alla perfezione, a qualsiasi costo e in qualsiasi condizione. Torno ai suoi racconti intrisi di ironia feroce, vi leggo un po’ più di lei – ma non troppo, lo detestava – , delle persone che erano il suo mondo, della vita. Lo consiglio anche a voi.
«[…] ho lasciato spazio al mio lato migliore, alla solidità emotiva. È lì che affonda la mia vocazione alla scrittura. E non c’è dubbio che scriviamo ciò che abbiamo davanti. Ma se poi non lo deformiamo, allora è solo carta da buttare». (p. 135)
Debora Lambruschini
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