In un’intervista recente lo scrittore irlandese Colm Tóibín a chi gli chiedeva se scrivere Long Island abbia rappresentato un momento particolarmente significativo nella sua carriera rispondeva: «Non ho una “carriera” come scrittore […]. Ogni libro scritto comporta delle difficoltà, delle sfide da affrontare e non voglio mai pensare “sono uno scrittore, ho una carriera da scrittore”». Scrivere, al meglio delle proprie capacità, una frase dopo l’altra, un paragrafo dopo l’altro, è questo che interessa a Tóibín.
Ho riflettuto a lungo su queste parole, su quello che comportano in un sistema editoriale – qui penso soprattutto a quello nostrano – in cui il personaggio sembra molto spesso essere e considerarsi più importante della qualità letteraria dell’opera e l’obiettivo verso cui puntare è proprio quella carriera, quell’appartenenza a una determinata élite da cui Tóibín, invece, prende le distanze. E, soprattutto, è stato necessario riflettere a lungo su Brooklyn, il romanzo con cui Tóibín vinse il Costa Book Award del 2009 – e pubblicato in Italia lo stesso anno da Einaudi, nella traduzione di Vincenzo Vega – e Long Island, arrivato adesso in libreria – sempre Einaudi, traduzione di Giovanna Granato – , ascoltare l’autore, per andare oltre la semplicità delle trame e accorgersi delle profondità che contengono.
Tóibín è un maestro nel tratteggiare l’intimità dei personaggi e raccontarne sentimenti ed emozioni sommerse, in un equilibrio ideale tra parole e silenzi: i suoi personaggi, soprattutto quelli femminili, sono capaci di sentimenti fortissimi ma che quasi sempre rimangono inespressi, emozioni che restano sotto la superficie. Tanto in Brooklyn quanto nel più recente Long Island l’autore concentra lo sguardo sulla quotidianità, su persone comuni e vite che appaiono ordinarie al lettore, ma cariche di significato per coloro che le abitano. Il dettaglio autobiografico disseminato in ogni suo testo è una mappa degli affetti che racchiude persone e luoghi, situazioni mutate dall’occhio del romanziere ma pulsanti di vita, concrete, reali.
Come concreti e reali sono i luoghi, l’Irlanda rurale e Brooklyn, i due poli della vita della protagonista, Eilis Lacey: l’Irlanda in cui è nata, il paese in cui conosce ogni strada e ogni persona, Enniscorthy, che giovanissima lascia spinta dalla madre e dalla sorella per andare a costruirsi una vita a New York, nel quartiere di Brooklyn. Sono gli anni Cinquanta, l’Irlanda sta attraversando una profonda crisi economica, per Eilis e moltissimi giovani come lei paiono non esserci opportunità: ha perso il padre qualche anno prima, i fratelli maschi sono già da tempo andati a lavorare in Inghilterra, la sorella maggiore Rose ha un impiego come segretaria ed è grazie a quello che loro due e la madre vedova riescono a vivere; ma per Eilis non ci sono prospettive in quel piccolo paese di campagna e la proposta di un prete irlandese arrivato da New York in visita alla famiglia convince Rose e Mrs Lacey a far partire Eilis in cerca di un futuro migliore. Tutto è deciso e in breve la ragazza si ritrova nel pieno dei preparativi per la partenza, attenta a non far trapelare quanto quel cambiamento la spaventi, quanto si senta inadatta per un’avventura del genere, straziata dalla malinconia verso ciò che è stato tutto il suo mondo.
Voltandosi a guardare la sorella, Eilis avrebbe voluto dirle che forse era meglio invertire i ruoli, che lei, così pronta per la vita, così facile a fare nuove amicizie, sarebbe stata più felice se fosse andata in America, così come Eilis sarebbe stata meglio se fosse rimasta lì. (p. 38)
Quella di Eilis è una delle tantissime storie di migranti che negli anni Cinquanta del secolo scorso hanno lasciato l’Irlanda per tentare fortuna negli Stati Uniti, a New York soprattutto, in cerca di quelle opportunità che la loro terra non poteva offrire.
Tóibín posa delicatamente lo sguardo su una di queste persone, Eilis, racconta il viaggio difficile, le ingenuità giovanili, il cuore straziato dalla lontananza tenuto ben al riparo dagli altri, concentrata nel non deludere le aspettative, impegnarsi a ripagare la gentilezza di chi l’ha accolta e aiutata, lavorando e studiando duramente senza concedersi spesso il lusso di pensare a casa, in Irlanda. Forse è convinta che quella a Brooklyn sia solo una parentesi, breve, prima di poter tornare alla sua terra, alle sue abitudini, alle persone che conosce da tutta la vita. Le settimane a New York diventano mesi e stagioni che si sommano l’una sull’altra e il ricordo di Enniscorthy è intriso del dolore di aver ormai capito che difficilmente potrà tornarvi.
Si rese conto che nelle ultime settimane non aveva mai davvero pensato a casa. Enniscorthy le era tornata in mente a lampi, come l’immagine balenata nel pomeriggio della liquidazione, e sebbene il ricordo della madre e di Rose l’avesse ovviamente accompagnata, aveva distolto il pensiero dalla sua vita laggiù, quella vita che aveva perduto e non avrebbe mai più ritrovato. (p. 81)
Sarà un evento drammatico a strapparla alla vita newyorkese e riportarla in Irlanda, forse per un breve periodo o forse definitivamente, come accadrà ancora vent’anni dopo, per ragioni molto diverse, ma in un altro viaggio verso Enniscorthy. Vent’anni in cui accade molta vita: un matrimonio, i figli, un lavoro, distanze e parole rimaste sospese, il passaggio da ragazza spaurita a donna adulta con una voce che non ha più timore di far sentire.
Ne sono passati quasi altrettanti dalla scrittura del primo romanzo e di quello che possiamo definire un sequel e se le modalità narrative sono profondamente mutate - dal punto di vista focalizzato su Eilis del primo a una narrazione corale che si muove fra tre personaggi del secondo - lo sguardo pieno di grazia di Tóibín è rimasto lo stesso, attento a non giudicare mai i suoi personaggi, indagarne le pieghe e i sentimenti più intimi e inespressi.
È in questo che la lettura di Brooklyn e Long Island – ma anche della bella raccolta di racconti Madri e figli uscita diversi anni fa per Fazi e credo ora introvabile o quasi – ha bisogno dunque di farsi attenta, dal ritmo lento: meglio scacciare la tentazione di girare la pagina frettolosamente a caccia di qualche colpo di scena e grandi epifanie, momenti di intensa drammaticità e lirismi, ma, al contrario, godere della vita che Tóibín riesce a infondere nei suoi personaggi, nella semplicità del quotidiano. Ecco, infatti, che quando il ritmo si fa più incalzante come in Long Island qualcosa si incrina, la concentrazione del dramma una scena dopo l’altra appare quasi straniante leggendo i due romanzi in sequenza stretta. Ciò che tuttavia resta profondamente saldo in questa storia è lo sguardo dell’autore sulle persone comuni e sulle emozioni inespresse. A partire dagli abissi custoditi dalla stessa Eilis e dal peso di una vita divisa tra Irlanda e New York:
In realtà nessuno sapeva niente di lei. Su quella panca del duomo, come in quelle davanti e dietro, sedevano persone che vivevano lì da tutta la vita. Non dovevano spiegare chi erano. Lo sapevano tutti chi avevano sposato, come si chiamavano i loro figli. Non avevano accenti diversi da usare con le diverse persone che incontravano. Non vivevano in posti dove in una biglietteria o in un negozio i figli cercavano spesso di parlare prima di loro per evitare che l’accento materno suscitasse domande. (p. 156)
«Nessuno sapeva niente di lei»: non solo gli estranei che affollano le strade di una grande città ma, parrebbe, anche le persone a lei più vicine che ne possono solo vagamente intuire certi tumulti, le mancanze. Vent’anni dopo, però, Eilis non è più una ragazzina spaventata ma una donna che si è costruita una vita – anche se molte cose sembra più che altro le abbia subite passivamente – e quando tutto vacilla per l’errore imperdonabile di un uomo arriva il momento di fare i conti con sé stessa, le proprio scelte, i sentimenti inespressi. Le parole che mancano sono il fil rouge che ha tenuto insieme per tutti questi anni Eilis e la madre, tutto ciò che nel tempo è stato taciuto, nascosto in qualche cassetto, dissimulato. Mentre in un piccolo paese come Enniscorthy il chiacchiericcio è costante e mantenere il riserbo sulla propria vita richiede non pochi equilibrismi, il rapporto tra Eilis e Mrs Lacey vive di quei silenzi e di quelle parole non dette. Quanto davvero sia celato all’altra, quanto disinteresse o meno per le reciproche vite, è da scoprirsi addentrandosi nella storia.
Quello che qui mi preme sottolineare è l’attenzione con cui Tóibín racconta il rapporto tra madre e figli(a), lì dove lo sguardo autoriale si posa con straordinaria efficacia, privo di ogni minima forma di giudizio. E, ancora, nei ritratti femminili, che sa rendere così reali, un’attenzione al dettaglio e alle profondità psicologiche che trasformano i personaggi in persone. È questo che vale la pena di tenere bene a mente lungo tutto il corso della lettura: non sono i piccoli grandi drammi, le svolte improvvise della trama, le scelte narrative e dei personaggi a darci misura delle capacità letterarie o meno di Tóibín: sono i suoi personaggi, costantemente in dubbio, imperfetti, feriti, scostanti. Di carne e sangue. Anche quando si lasciano «passare la vita accanto», quando fanno scelte avventate, ecco, perfino quando non sappiamo quali decisioni effettivamente prenderanno e quali saranno, dunque, i loro destini. Restano solo alcuni momenti, sulla pagina, piccoli fuochi di esistenze come tante.
Debora Lambruschini
Social Network