di Marcelo Rubens Paiva
La Nuova Frontiera, gennaio 2025
Traduzione di Marta Silvetti
Se tutto è una ricreazione di qualcosa che è già stato inventato, nulla è un'invenzione. So che più avanti ripeterò cose che ho già raccontato. Questo libro sulla memoria nasce così. Si recuperano delle storie. Alcune portano ad altre. Le storie vanno e vengono con nuovi dettagli e riferimenti. Rileggo la rilettura della vita della mia famiglia. Riscrivo ciò che ho già scritto. (p. 32)
Marcelo Rubens Paiva, scrittore, sceneggiatore e giornalista brasiliano, è suo malgrado famoso perché suo padre, Rubens Paiva, ex deputato laburista, nel 1971 fu rapito, torturato e ucciso dalla dittatura militare che governò il Paese dal 1 aprile 1964 al 15 marzo 1985.
In questo romanzo - diventato nel 2024 anche un film omonimo diretto da Walter Salles, presentato in anteprima alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore del Leone d’argento per la Migliore Sceneggiatura - in realtà il protagonista non è tanto Rubens Paiva, quanto sua moglie, Eunice. Donna forte, vedova prematura, avvocato a quarantotto anni, mamma di cinque figli, una delle primissime professioniste a dedicarsi ai diritti dei popoli indigeni. D'origine italiana - di cognome faceva Facciolla - viene descritta dal figlio Marcelo, che è voce narrante, come una persona pratica, oggettiva, per nulla incline ai drammi e alle smancerie. Una mamma non molto italiana, come ammette lui stesso, calcando un po' il cliché che vuole gli italiani tutti pazzi ed esagitati.
Il padre invece, Rubens, viene sempre descritto come «uno dei sovversivi più allegri e gioviali che Callado ha mai conosciuto». (p. 146)
Il romanzo viene strutturato come un memoir autobiografico che parte dall'infanzia di Marcelo, un'infanzia paradisiaca, ricca, spensierata, la migliore che un bambino possa mai avere:
Per me ogni bambino aveva diritto a una vita come quella. Non so come si possa imparare, sopravvivere e condividere esperienze, avere figli, trovare la pace spirituale, essere completi e solidali senza aver vissuto in campagna con tanti cugini, abbracciati dalla propria famiglia, coccolati e al sicuro, senza aver mai attraversato la nebbia mattutina di una valle o un fiume su una canoa ricavata da un tronco, senza aver contato le stelle cadenti, senza aver sentito sulla pelle l'acqua gelida di un fiume limpido o il manto di un cavallo selvaggio tra le gambe, senza essere mai scappati dalle oche selvatiche, senza essersi mai rotolati nel fango, senza essere sfuggiti agli alligatori, senza aver mai imparato a sellare un cavallo o a cadere da cavallo, senza aver mai condotto una mandria, mangiato frutta direttamente dall'albero, pescato, senza essere andati alla ricerca del saci, socializzato con i ragazzini del posto, bevuto caffè in tazze di metallo, obbedito al capo mandriano che, dicevano, era venuto a cavallo direttamente da Bahia e sapeva come prendere al lazo un toro di prima classe.
Ero uno dei bambini più felici del mondo. (p. 52)
Una casa ricca, come dicevo, circondata da affetto, parenti rumorosi, amici che andavano e venivano, giornalisti, politici, fidanzati. E poi però nel 1971 il dramma della sparizione di Rubens Paiva: da quel momento in poi Eunice sarà la guida della famiglia, delle quattro sorelle e di Marcelo, unico maschio rimasto. Cresce in fretta per forza di cose, poi a vent'anni un altro trauma: un incidente al lago, cade, si frattura la quinta vertebra cervicale e resta tetraplegico.
Il romanzo si concentra tuttavia non sulla sua esperienza dolorosa, ma sul modo in cui la madre Eunice riprende in mano la sua vita dopo la sparizione del marito: con uno stile a tratti documentaristico, quando racconta del golpe, delle cause in tribunale della madre, degli stralci di lettere e giornali che riguardano Rubens, Marcelo Paiva fa un lavoro a ritroso. Eunice, al momento della narrazione, è affetta da Alzheimer, dunque il romanzo è una scusa per ricordare.
Fecero sparire il corpo così come fecero sparire quello di mio padre, senza testimoni e senza clamore. La tortura è lo strumento di un potere instabile, autoritario, che ha bisogno di circondarsi di violenza per afPerfermarsi, e di un'alleanza sadica tra criminali, governanti psicopatici, vertici di regime che si mantengono terrorizzando coloro su cui comandano. Non è l'azione di un gruppo isolato. La tortura è sponsorizzata dallo Stato. La tortura è un regime, uno Stato. Non è l'agente o l'ufficiale tal dei tali a perdere il controllo. È l'istituzione con la sua rete gerarchica di comando a torturare. La nazione che la sponsorizza. Il potere, che sia emanato dal popolo o meno, che si sporca le mani. (p. 106)
Per ricordare, come nelle rievocazioni della bellezza di un Paese come il Brasile negli anni '60 e '70, e per denunciare ogni forma di dittatura, non solo quella che colpì la loro famiglia e molte altre in quel periodo.
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