Non è facile parlare di Storia, in un’Aula Magna gremita di studenti, catturando la loro attenzione e riuscire, senza troppi sforzi, con la sincerità e la forza della propria testimonianza, a mantenerla viva per ben due ore. Non è facile, quando fra le pagine della storia riaffiorano anche i propri ricordi personali, offrire quella testimonianza senza emozionarsi e – cosa ancora più bella e “forte” – non è così scontato coinvolgere, in quelle emozioni, anche il proprio uditorio. Soprattutto in un contesto scolastico, con un pubblico giovane, e durante l’organizzazione di incontri a tema o giornate dedicate, quando il rischio è quello di ripetersi di anno in anno o di annoiare gli studenti, spesso tendenti alla distrazione o troppo poco critici di fronte ai fatti della Storia.
Il coraggio dei tre no è una storia di memoria trasmessa, che ci viene narrata da Nicola Marazzita come in un’intima confessione fra padre e figlio, il racconto della vita militare di Giuseppe Marazzita, sconvolta dall’annuncio dell’armistizio di Cassibile, dalla deportazione e dall’internamento. Una storia di coraggio e di tenace resistenza, scritta da Giuseppe Marazzita insieme a tanti altri militari italiani, che come lui hanno deciso di dire no ai Tedeschi, così come alla neonata repubblica di Salò, pur consapevoli di andare incontro ad un destino incerto e rischioso.
Una storia riemersa dal silenzio del
passato, in quella che sembrava una sera come tante a casa Marazzita, che desidero iniziare a
narrarvi proprio con le parole dell’autore:
Si immerse nel passato, nella profondità della sua storia che ora riaffiorava come onde di mare, ora calmo, ora in tempesta. La sua voce era calda e profonda, carica di passione, mentre raccontava di giorni lontani e avventure trascorse. “Vedi”, disse con un sorriso nei suoi occhi rugosi, “anche il comandante Malagamba aveva un debole per il riso, e io glielo preparavo con abbondante formaggio, nascosto alla base del piatto, Era il nostro piccolo segreto, un modo per far sì che si sentisse apprezzato senza destare sospetti. Fu lui, alla fine, a scegliermi come cameriere per la mensa sottoufficiali. Era un legame di fiducia e rispetto reciproco. Una ricompensa per un impegno sincero”. Quelle parole riempirono la stanza, ma più di tutto riempirono i vuoti della mia comprensione, gettarono luce su frammenti di storia che avevo ignorato per troppo tempo. Nelle rughe del suo viso c’era la mappa di un viaggio attraverso gli anni, un viaggio che ora avevo la fortuna di intraprendere al suo fianco, attraverso le sue parole e i suoi pensieri. (p. 3)
Rotto il silenzio, inizia, con una serie
di lunghi e commoventi flashback, il viaggio attraverso i ricordi
di Giuseppe Marazzita, costretto a staccarsi dalla quiete di Galatro, quando fu
chiamato alle armi appena ventenne, all’alba del 6 Gennaio 1941.
La narrazione viene condotta dall’autore
ora in prima persona, attraverso le parole di Giuseppe, ora in terza,
attraverso le parole di Nicola, testimone indiretto dei fatti, come a voler
creare un vincolo emotivo ancor più stretto fra i due, un legame
indissolubile fra padre e figlio, che ripercorrono insieme il corso degli
eventi, affinché nessun frammento di memoria possa disperdersi.
Dalla leva militare all’antica caserma Cesare Battisti di Nola, dove Giuseppe
riesce a trovare consolazione
nell’abbraccio caloroso di solidarietà dei compagni e nella benevolenza del
colonnello Malagamba. E poi, ancora, l’annuncio dell’armistizio che trascinò
nel caos le forze militari italiane; l’arrivo degli Alleati, l’eccidio di Nola,
Mussolini e la repubblica di Salò, l’esperienza dei campi d’internamento… Odessa…
e, infine, la ritrovata libertà. La narrazione si dipana in maniera scorrevole
e veloce, mentre la storia di un uomo, intrecciandosi con quella della sua
patria, si ricompone ricollocando al proprio posto le tessere del puzzle della
sua vita.
In questa storia, di resistenza e sopravvivenza, sono state le scelte coraggiose a fare la differenza, come i tre NO a cui si fa riferimento nel titolo. Il primo NO subito dopo l’armistizio, rappresentato dal rifiuto di combattere con l’esercito tedesco:
Fummo ammassati in un grande piazzale vicino alla stazione, un ufficiale tedesco che parlava la lingua italiana con marcato accento, ci offrì la possibilità di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco, non capimmo pienamente il motivo di quella richiesta, ma senza pensarci molto la stragrande maggioranza dei militari presenti disse no, come me. Io avevo visto quello che i nazisti avevano fatto a Nola, lo avevo visto con i miei occhi, non potevo in nessun modo schierarmi dalla loro parte. Molti mesi dopo compresi quanto caro mi era costato quel no. Non mi pentii, anzi si rafforzò in me la consapevolezza di una scelta giusta. I tedeschi non dovevano vincere la guerra, avrebbero distrutto tutto. (p. 21)
Con questo primo, ostinato rifiuto, gli IMI iniziano a disegnare un cammino verso un futuro di autonomia, libertà e dignità dell’Italia: “Una nuova Italia doveva essere possibile”. Ma quel NO fu l’inizio di un viaggio che mai avrebbero immaginato… il viaggio verso l’ignoto.
Non sapevano cosa li aspettasse, ma avevano la sensazione amara che la prigionia fosse il loro destino. Il morale aveva toccato il fondo, il silenzio regnava sovrano nel vagone. La folla era opprimente. La tensione cresceva in ogni istante con disordini che scoppiavano senza motivo apparente. Erano esausti, sporchi, affamati. (p. 25)
Fuori dai vagoni, affamati, impauriti e ancora ignari del loro destino, capirono con certezza che erano prigionieri dei nazisti. Schiere di soldati tedeschi, armati fino ai denti, li aspettavano. Camminarono in fila verso una vasta spianata e sopra un cancello imponente si stagliava la scritta “STAMMLAGER XVII A”. Poteva essere la loro ultima destinazione. I Tedeschi, con grossi cani al guinzaglio, li circondavano, urlando occasionalmente “italiani traditori”. (p. 25)
Il generale ci rivolse alcune parole: chi aderiva avrebbe goduto del trattamento di un soldato e di un ufficiale tedesco, con cibo abbondante e un buono stipendio. Le nostre famiglie sarebbero state trattate con maggiore gentilezza. Invece, coloro che avrebbero rifiutato, sarebbero stati abbandonati al loro destino, lasciati alla fame e al freddo […]. (p. 33)
È in questa seconda sezione che avviene il
passaggio di status degli IMI da militari a lavoratori civili, inviati ai
“lager comunitari”, situati in posizioni strategiche vicino alle industrie che
necessitavano di manodopera.
È proprio nella desolazione di uno di
questi campi di lavoro, lungo il percorso che separava il campo dalla fabbrica “Imperial”,
che una voce femminile, un giorno, richiama il cuore e la coscienza di
Giuseppe: «Stai male? Hai
bisogno di qualcosa?» (p. 62).
Neanche la ritrovata libertà, il rientro
in patria e la costruzione di una famiglia propria spazzeranno via la sua
immagine dalla mente di Giuseppe, perché quell’amore, indelebile, resterà per
sempre inciso nel cuore del protagonista.
Così come gli orrori della guerra. E
le cicatrici, dell’anima e del corpo.
«Dopo diversi anni, ma sempre troppo presto, il destino e forse la prigionia impediranno un tardivo incontro con quell’amore di gioventù, ma il lettore potrà farlo con il libro, che costituisce un contributo importante alla salvaguardia della Memoria degli Internati Militari Italiani e una toccante storia di affetto filiale che valorizza ancor più il volume»
(dalla Prefazione al volume, La Presidenza Nazionale ANEI)
Un libro-testimonianza che considero di grande valore, dal punto di vista sia storico sia umano.
Federica Malara
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