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Dieci uomini, due donne, e “l’azione più grande”: via Rasella nella ricostruzione di Ritanna Armeni, in “A Roma non ci sono le montagne”

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A Roma non ci sono le montagne
di Ritanna Armeni
Ponte alle Grazie, 2025

pp. 230
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Nel suo nuovo romanzo, edito da Ponte alle Grazie, Ritanna Armeni si concentra su un episodio fondamentale, ma spesso volutamente lasciato in ombra, della Resistenza italiana: l’attentato di via Rasella, a Roma, organizzato e concretizzato da un’iniziativa congiunta dei Gap centrali, i “gruppi di azione patriottica”, che agivano – a differenza delle bande partigiane impegnate sulle colline – al cuore del tessuto cittadino. Braccio armato del Partito comunista, i Gap si muovevano con ampi margini di autonomia, allo scopo di creare, attraverso atti di guerriglia urbana, il maggior disturbo possibile alle forze di occupazione nazifasciste («agivano ogni giorno con caparbia e costanza. Un lavoro metodico, sistematico, in cui il rischio è calcolato, la paura controllata. E l’odio per il nemico – implacabile – si trasforma in tritolo, colpi di rivoltella, agguati inaspettati», p. 58). I Gap, la cui esistenza era nota e approvata dal Comitato di Liberazione Nazionale, obbedivano anche alle indicazioni delle forze alleate in avvicinamento alla Capitale, che chiedevano a chi si trovava già all’interno della città di produrre con ogni mezzo azioni diversive e di supporto alla loro avanzata.

Il volume di Armeni esplora nel dettaglio un arco temporale limitato: poco meno di tre ore, durante le quali vengono presentati i personaggi, passate in rassegna le loro motivazioni, e si osserva il dipanarsi del piano, volutamente rallentato da una narrazione chirurgica. Un gioco di flashback crea dinamismo all’interno di una estenuante dilazione del momento dell’arrivo della colonna tedesca nel luogo previsto per l’attacco, aprendo spiragli verso il passato dove i protagonisti, diversi per età, estrazione ed esperienza, hanno maturato il loro sentimento antifascista e il loro desiderio di ribellione.

A Roma non ci sono le montagne e questo rende il terreno di combattimento più pericoloso, l’azione di chi si oppone più pericolosa e delicata. Lo sanno bene i membri della resistenza cittadina, che sono disposti a rischiare tutto («A Roma per i ribelli […] lottare, ma anche mangiare, dormire, incontrarsi, fuggire, è una sfida senza tregua. […] Per salvarsi, le donne e gli uomini dei Gap dovevano diventare ombre, figure evanescenti capaci di dissolversi», p. 58). Lo sanno però anche i tedeschi: 

I Banditen alla fine saranno sgominati. Non hanno tante armi, non hanno materiali per costruirle. Hanno solo l’odio contro di loro. E a Roma non ci sono le montagne. Non potranno sfuggire ai rastrellamenti. Il pensiero lo rende più sereno. (p. 22) 

L’alternanza delle focalizzazioni consente di mettere in luce i diversi punti di vista: da un lato quello degli organizzatori e partecipanti all’offensiva, per lo più giovani intellettuali idealisti di estrazione borghese, ma anche donne, e proletari; dall’altro quello degli occupanti, come il comandante della Gestapo Herbert Kappler, che viene presentato nella sua asettica e mortale efficienza, mentre si interroga su come ridurre sotto controllo la città di Roma, dalla battaglia di Porta San Paolo al trasporto verso la Germania della riserva aurea dell’Italia, dal «problema degli ebrei», rinchiusi in un ghetto e poi deportati, all’arresto dei Carabinieri rimasti fedeli al re. «Nessun uomo doveva sentirsi al sicuro, nessuna famiglia tranquilla» (p. 26) è l’unica legge che guida l’invasore. 

Questa minaccia dilagante e claustrofobica rende più pressante la realizzazione di «una vera azione di guerra. Una battaglia come mai è stata combattuta nella città occupata dopo l’8 settembre» (p. 39). La data prescelta è il 23 marzo 1944, il giorno, fortemente simbolico, delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento. Il momento, il primo pomeriggio. I tedeschi attraverseranno via Rasella come ogni giorno, come ogni giorno cantando. L’attentato, realizzato attraverso la deflagrazione di diciotto chili di tritolo, si consumerà nell’arco di cinquantadue secondi, ed è pensato per fare il maggior danno possibile.

Armeni rifiuta la soluzione semplicistica di schivare la questione etica. Uno dei protagonisti, Rosario Bentivegna, detto Sasà, ventidue anni, incaricato di accendere la miccia, sa bene che uccidere «non era come dipendere con la vernice rossa la falce e il martello sui muri della città» (p. 71). Uccidere, quand’anche a essere colpito sia un fascista, o un nazista, produce dolore, toglie la fame, scaccia il sonno. Ma ogni mattina i membri dei Gap riprendono a farlo. La considerano una necessità. La problematizzazione passa anche attraverso la scelta dell’autrice di dare un nome e un volto al nemico, ad esempio quello del soldato sudtirolese Arthur, arruolato controvoglia, che marcia verso via Rasella nel suo ultimo giorno d’addestramento. Allo stesso tempo, però, non si vuole dare una visione idealizzata delle vittime – di fatto soldati appartenenti a truppe di occupazione, spesso prepotenti, traditori della “città aperta”. E se i nazisti vengono ritratti come spietati, quasi peggiore è il ritratto dei fascisti dell’ultima ora, stolidi e ottusi, prigionieri di una retorica ormai completamente svuotata e palesemente irrisi dagli antichi alleati.

Il contesto bellico rende legittima l’azione estrema: questa è anche la posizione dei tribunali incaricati, alla fine del conflitto, di valutare l’agire dei membri dei Gap, non solo reputati innocenti, ma premiati con diverse medaglie al valore militare. Se le domande non mancano («Le atrocità che commettevano ogni giorno erano tante, ma era giusto rispondere con la violenza alla violenza?», p. 86), nel concetto stesso di “azione di guerra” sta però, per i membri dei Gap, l’intima giustificazione del loro agire. Li muove un’istanza profonda, un’«urgenza», «colpire il nemico, annientare le forze tedesche, rispondere alla loro ottusa violenza» (p. 146).

Nel momento dell’esplosione, dopo il forzato rallentamento, il ritmo accelera e si fa vorticoso, rendendo ancora più scioccante la descrizione dell’attacco – di cui Armeni offre una ricostruzione realistica, non edulcorata, ma nemmeno sensazionalistica.

Per precisa scelta narrativa, l’autrice non si sofferma se non per poche pagine sulle conseguenze dell’attentato: quello che accade alle Fosse Ardeatine – la manifestazione della barbarie nazista nel rastrellamento e l’assassinio di trecentotrentacinque civili – viene rievocato soltanto nella postfazione, in cui Armeni riprende parola per spiegare le intenzioni della sua opera.

Alla base, forte, la volontà di dissipare una nebbia di sospetto che da decenni aleggia su quanto avvenuto in via Rasella, il desiderio di chiarire da dove abbiano avuto origine molte delle ambiguità che sono emerse nella rilettura successiva degli eventi. A differenza di molti episodi, per tanti versi simili, che hanno coinvolto momenti della Resistenza italiana, infatti, nel solo caso di via Rasella è stato creato un legame così stringente tra l’attacco e la ritorsione, un passaggio «dalla consequenzialità alla corresponsabilità» (p. 211) che rende ancor oggi l’evento divisivo.

Nel calcare i passi dei ragazzi e delle ragazze dei Gap tra le vie di Roma, nell’esplorarne i moventi, oltre che i movimenti, Armeni cerca con buon esito di riconsegnare l’accaduto alla storia, sottraendolo alla politica. Dispiace solo un po’ che il finale risulti – dopo la lunga costruzione iniziale – fin troppo rapido, e che poco spazio sia dato alle vite “successive” dei protagonisti, che avrebbero potuto, nella loro evidenza, supportare ulteriormente la tesi sostenuta dal romanzo.  

Carolina Pernigo