Era molto atteso il nuovo libro di Roberto Camurri, quarta pubblicazione dallo strabiliante esordio A misura d’uomo, uscito per NN nel 2018. In sette anni il nome di Camurri si è imposto all’attenzione di critica e pubblico italiano con narrazioni che scavano nell’animo dei suoi personaggi, nelle dinamiche delle relazioni, attento soprattutto a raccontare – e non raccontare, in un preciso equilibrio tra detto e non detto – gli angoli bui, i sentimenti complessi, l’oscurità. Lo fa, fin da principio, con una scrittura assolutamente riconoscibile, cesellata con cura, che si muove al confine tra romanzo e racconto, tesissima; le frasi sono brevi, le parole scarne ma capaci di raccontare gli abissi che celano, la narrazione che corre in equilibrio tra piani temporali diversi, anticipazioni, giocando tra lo svelarsi e il nascondersi.
Quattro romanzi, una voce autoriale potente, l’occorrenza di tematiche e suggestioni: Camurri ha trovato la sua dimensione, il suo stile, e un libro dopo l’altro li consolida, senza cedere alla tentazione di stravolgere la sua scrittura. È un filo rosso che attraversa le sue storie, i romanzi, la sicurezza di chi ha scelto con attenzione dove posare lo sguardo, come del resto hanno fatto altri autori prima di lui, scrivendo e riscrivendo la stessa storia, inchiodando il lettore alle parole e senza per questo limitare la propria scrittura. La dimensione di Camurri, dunque, si lega alla sua stessa voce e al desiderio di raccontare le fragilità e i sentimenti complessi dei personaggi, soprattutto maschili: i traumi e i fantasmi che li accompagnano, quello che manca, il dubbio, i sentimenti a cui spesso è difficile dare un nome.
Con Splendeva l’innocenza l'autore abbandona – ma non proprio del tutto – Fabbrico, quel «paese gettato a caso nel mezzo della pianura padana» per radicare la sua storia a Monterosso, un borgo del levante ligure che conosce molto bene, costruendo una vicenda tesa fra due piani temporali, presente e passato divisi da vent’anni e tutta la vita che ci sta dentro. Monterosso, ma anche La Spezia e soprattutto la Genova dell’estate 2001, ossia del G8.
Questa volta la lettura non può farsi del tutto oggettiva: conosco così da vicino questi luoghi e le persone che li abitano, la loro bellezza straziante, le difficoltà, come si trasformano dall’inverno all’estate. Ecco, Camurri li conosce altrettanto bene, come chi vi ha trascorso del tempo e ne ha assorbito l’essenza e il narratore che riesce a imprimere sulla pagina gli odori, gli scorci, il quotidiano. La sola cosa che mi è mancata è la cadenza ligure, anche solo accennata, anche per un intercalare, mentre ho patito “l’intrusione” di un’inflessione “foresta”, quella formula “in bar” che non può essere nostra e stona su queste pagine, qui.
Non è una narrazione corale, tutta l’attenzione dell’autore è concentrata sui protagonisti di questa storia: Luca, soprattutto, quasi quarantenne che lavora nel bar di famiglia dopo che genitori se ne sono andati a Fabbrico, la città d’origine della madre. Pietro e Alessio, gli amici di sempre, quelli con cui è cresciuto e a cui lo lega l’affetto e un passato comune. E poi le donne: Valentina, il suo passato, i vent’anni, quello che non è stato; Giulia, che è tiepido presente. C’è come sempre nelle storie di Camurri una voragine, che spesso è stata mancanza a cui era impossibile dare nome, la sensazione di tragicità imminente: per Luca quella voragine in qualche modo ha dato forma alla vita adulta, ne ha determinato le scelte, il carattere.
Negli anni si è costruito una vita a prova di emozioni, una routine che lo tiene al riparo dalla sofferenza, dal caos emotivo, dalle aspettative e dalle speranze. Ha lavorato di cazzuola e cemento per costruirsi una difesa insormontabile, una roccaforte di apatia da cui si concedeva di uscire soltanto quando Alessio aveva bisogno di lui. (p. 25)
Il presente vive del lavoro nel bar che adesso è suo, dell’appartamento in cui abita sopra al locale, del rimpianto di quell’amore conosciuto a vent’anni e perduto: Valentina, che adesso è una giornalista affermata e che Luca segue attraverso uno schermo, tornando sempre più di frequente al ricordo dell’estate del 2001, a lei, a Pietro e Alessio, a quello che è stato. Il presente è anche Giulia, quel rapporto non convenzionale che hanno e a cui Luca fatica a dare un nome, fatica ad ancorarsi. Ancora, il presente è Alessio, da salvare, come ha fatto tutti quegli anni, con l’aiuto di Pietro. Capiamo presto che la voragine per Luca si mescola al senso di colpa, al bisogno di salvare Alessio, così come capiamo che qualcosa di fondamentale è accaduto quell’estate; forse c’entra l’amore, forse l’amicizia, forse il G8, quel che è certo fin da principio è il filo che lega passato e presente e la tensione narrativa si concentra tutta lì, tra anticipazione e mascheramenti, piccole epifanie.
Come in A misura d’uomo, Camurri torna a confrontarsi con l’amore e soprattutto con l’amicizia, con i sentimenti che tengono insieme certi legami a cui non serve dare definizione e con quell’età bellissima e brutale dove tutto è ancora possibile.
Tutte le birre bevute, non solo quel giorno, in tutta la loro vita. Quelle per festeggiare, per noia, per allontanare la tristezza. Tutte le droghe che si erano fatti, insieme fino a un certo punto, l’accelerazione di Alessio e Luca che lo guardava allontanarsi, distaccarsi, il bisogno di esserci ogni volta che andava raccolto e rimesso in piedi, come quella sera. Gli tornano in mente i sogni, le possibilità che credevano di avere. Gli torna in mente il G8 a Genova. Gli torna in mente ogni cosa infranta. (p. 81)
È bella la figura di Alessio, è tragica, è ironica. È uno sciamano, è senso di colpa. È passato e presente. Riesce sempre benissimo a Camurri raccontare quel sentimento lì, l’amicizia tra uomini, legati da «un sentimento che non avrebbero saputo come chiamare a tenerli insieme» (p. 45) e che, almeno fino a un certo punto, basta ad ancorarli l’uno all’altro. Tra loro tre ventenni e quelli di oggi c’è tutta la vita: i sogni che non si sono trasformati in realtà, gli amori, i rimpianti. C’è un rapporto che a tratti pare sfaldarsi, almeno per Alessio, rimasto più solo, e le parole non dette si fanno pesanti. Torna anche il rapporto con i padri, che si rincorre da una narrazione all’altra dell’autore nutrendosi di assenze, di vuoti, di parole scarne ma fondamentali, di gesti e solidità.
Con Splendeva l’innocenza Camurri traccia il ritratto di una stagione, intriso della nostalgia dei vent’anni senza rimanerne soffocato, ma riesce anche a raccontare una delle pagine più dolorose e complesse della nostra storia recente, i fatti terribili del G8 di Genova, senza mai cadere nella retorica. Sono pagine intense, vive e crudeli, che ben danno l’idea di che cosa quelle manifestazioni abbiano rappresentato e come tutto sia precipitato in un attimo, segnando profondamente la coscienza collettiva di ognuno di noi. C’è qualche piccolo inciampo narrativo, in un romanzo che non sarà perfetto ma che conferma Camurri come una delle voci letterarie più potenti del panorama italiano contemporaneo, con la sua scrittura salda, la volontà di sporcarsi le mani e di non tirarsi indietro, la voce autoriale ben delineata. E di raccontare benissimo tanto i sentimenti che legano le persone quanto gli aspetti più problematici della realtà.
Pur spostandoci da Fabbrico, Camurri sceglie anche in questo romanzo un luogo decentrato e in quella geografia racchiude tutta la vita di cui è capace, aprendo con questo a ulteriori spunti e suggestioni. Splendeva l’innocenza – non mi stancherò mai di questo titolo, risuona delle canzoni dei Modena City Ramblers, degli 883 e dei Nirvana, è il caos dei vent’anni e i suoi assoluti, ma è anche con la stessa potenza la crisi dei quaranta e i bilanci che volenti o no è istintivo fare, nello scarto tra la vita che immaginavamo allora e quella che stiamo vivendo, ma anche tra restare e andarsene, una tensione sempre cara a Camurri nell’influenza profonda che i luoghi esercitano sui suoi personaggi.
Monterosso non è Fabbrico, profuma di salsedine e ginestra, si inerpica su stradine a picco sul mare, ma conosce un’altra forma di isolamento, di lontananza dal caos pulsante della città. Al posto della nebbia e del freddo che avvolgono ogni cosa, ci sono il mare e i suoi cambi d’umore, i temporali, il trauma delle alluvioni e del fango, in una narrazione che anche in questo caso fa un uso importante e peculiare degli elementi naturali, senza spingersi alle atmosfere di Qualcosa nella nebbia per ancorarsi più saldamente al reale – seppure per un breve momento qualcosa di mistico sembra avvolgere la scena – e soprattutto alle persone che di certi luoghi sono l’essenza, anche quando li hanno lasciati. Di Monterosso, dunque, Camurri fa comparire sulla pagina i bar, quelli alla moda frequentati dai turisti, quelli che restano uguali anno dopo anno, i segni del fango, le cabine degli stabilimenti e le spiagge nascoste, il cimitero arroccato sulla collina e vecchi casolari inagibili. Dentro le pagine vive la fatica sottesa di chi ha scelto di restare e il quotidiano normalissimo di persone comuni, quelle che in fondo vale davvero la pena raccontare, raccontarle come fa proprio Camurri: senza fronzoli, senza troppi sentimentalismi, ma con squarci che tolgono il fiato.
Debora Lambruschini
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