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"Viviane Élisabeth Fauville" e il dolore di non ricordarsi chi siamo, chi eravamo e perché abbiamo ucciso

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Viviane Élisabeth Fauville


Viviane Élisabeth Fauville
di Julia Deck
Adelphi, 2024 

Traduzione di Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco
Prima edizione: 2014

pp. 129
€ 12 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)

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Quando dieci anni fa, questo libro di Julia Deck fu pubblicato, per la prima volta, sempre da Adelphi (uscito in Francia due anni prima), si parlò di rinascita del noir francese. Questo esordio, vivido e intensissimo, è in effetti un esempio della miglior scuola francese del genere noir. 


C’è Viviane Élisabeth che è una donna in carriera, responsabile della comunicazione per una prestigiosa azienda francese, ma è anche madre di una bambina di pochi mesi e una donna sull’orlo di una forte depressione per la separazione traumatica dal marito. La incontriamo per la prima volta in una stanza vuota, dove ha appena traslocato, con la bimba tra le braccia e la sensazione di aver commesso qualcosa di indicibile. 


Non resteremo molto sulle spine: la bella quarantaduenne si ricorda quasi subito di aver ucciso il suo psicanalista con un coltello da cucina. Ed è da qui che comincia la sfida, che non consiste tanto nel cercare di coprire le sue tracce ma nel comprendere, all’interno di un’esistenza frantumata, cosa è davvero avvenuto e in che modo. Perché la protagonista comincia, tra alti e bassi, tra memoria e oblio, a fare tutta una serie di cose che ci sembrano assurde, inconcludenti e totalmente diverse da ciò che dovrebbe fare un’assassina in fuga. 


Infine avviene il tracollo e la cattura, la donna viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico e mentre cerchiamo di capire ed empatizzare con Viviane Élisabeth, ecco che tutto viene messo di nuovo in discussione, anche la dinamica dei fatti, l’omicidio stesso, la vita di questa donna, che è sempre stata brava a comunicare e che diventa incomunicabile a se stessa e agli altri, incomprensibile, inconcludente.

E poi non lo so perché faccio quello che faccio, lo faccio e basta. Non è che la ritenga una buona idea, e non ne vado fiera, semplicemente non posso fare altrimenti: i piedi si muovono da soli e io li seguo. (p. 53)

Contesto e interiorità sono complementari: laddove c’è un pieno subentra un vuoto, nella testa e nella memoria della protagonista, mentre tutto intorno le cose sembrano girare ad una velocità incredibile, la sua vita si ferma e va in frantumi. Non è più la stessa donna ma resta ancorata alla sua maternità, anzi forse è la cosa che più la rende presente a se stessa. Il ruolo dell’altro è fondamentale per la realizzazione del suo stesso io. 


Interessante l’utilizzo della prima, della seconda e della terza persona, così come del “vous” francese, che contribuiscono a complicare le angolazioni e i punti di vista, a frantumare la linearità del racconto. In un romanzo che sarebbe molto piaciuto a David Lynch, che di queste angolazioni e punti di vista, ha fatto la cifra distintiva dei suoi film.


A questo proposito il confronto con L'innominabile di Samuel Beckett, che introduce l'opera in esergo, non può che far scaturire delle riflessioni sulla funzione della struttura, l'uso del linguaggio e la tematica della follia. Sebbene l'opera di Beckett sia tutta in prima personaentrambe le opere destrutturano la narrazione tradizionale e pongono il problema dell’io narrante. Se in Beckett l’io si dissolve, fino a renderlo un puro flusso di parole, Julia Deck frammenta la voce narrante, mettendo in discussione l’identità della protagonista.


Per quanto riguarda la personalità della protagonista, se la confrontiamo con Beckett, noteremo che mentre in Viviane Élisabeth Fauville la crisi identitaria è legata ai vari traumi personali (il divorzio, la maternità, il presunto omicidio), in L’innominabile l’identità è già dissolta e il romanzo stesso è un tentativo impossibile di ricostruirla. Entrambi i libri pongono domande radicali sull’io e sulla possibilità di definirsi attraverso la parola.


Il linguaggio gioca dunque un ruolo primario, insieme al tema dell'incomunicabilità e della perdita d'identità, le pagine amplificano la sensazione di distruzione dell'unicità, la protagonista si perde inseguendo le vite delle altre donne, personaggi ambigui esse stesse e quasi doppi, in un continuum di perdita, incompletezza e drammaticità, che le fa quasi apparire come tanti alter ego della stessa Viviane.


Il rapporto con la follia prima e di conseguenza con la cura, attraverso lo psicanalista, è un altro dei temi presenti: da una parte vediamo l’incapacità dell’analista di entrare in empatia con la sua assistita, e di conseguenza la realizzazione fisica dell’uccisione del proprio inconscio, trasposto sul medico, la volontà di annientarsi definitivamente. Sono tutte tematiche molto interessanti - forse ancora di più oggi, rispetto a dieci anni fa - che tratteggiano ciò che in effetti spesso avviene nei confronti del supporto psicologico e registrano come possa essere devastante, a volte, l’incapacità di accettare la propria esistenza, la responsabilità che ne consegue e la stessa verità.


Samantha Viva