di Renata Viganò
Einaudi, maggio 2014
1^ edizione: 1949
pp. 246
€ 10 (cartaceo)
€ 3.99 (ebook)
L’Agnese si fece indietro piano piano tirando la bicicletta, entrò nel vicolo fra le due case. Ma prima di riuscire a stento per la distanza, a compitare la parola in grande sul cartello dell’impiccato. C’era scritto: «partigiano». (p. 29)
L’Agnese va a morire di Renata Viganò dovrebbe essere un caposaldo della letteratura sulla Resistenza, talmente potente, nella sua semplicità narrativa e stilistica da rendere il contesto storico, sociale, umano degli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Italia era smembrata da una parte dall’esercito fascio nazista e dall’altra dagli Alleati e partigiani che sacrificarono le loro vite pur di donarci quella libertà, oggi tutt’altro che scontata.
Uscito per la prima volta nel 1949, l'opera racconta la storia di Agnese, una lavandaia di mezz’età che, dopo aver assistito alla deportazione del marito Palita, decide, senza mai voltarsi indietro, di unirsi alle brigate partigiane nelle campagne emiliane. Con gli occhi di oggi, la scelta di Agnese è eroica e quasi “doverosa”, ma quello che fa Agnese è per lei (e per tutti gli altri partigiani) un’azione normale in quei tempi tutt’altro che facili. Ed è proprio questa normalità a colpire oggi il lettore, perché Agnese, fino a quel momento, non si è mai occupata di politica e ha trascorso la sua vita lontano dalla Guerra, ma è la deportazione del marito a farle scattare quella molla, capace così di renderla parte attiva nella lotta partigiana.
Fin da subito comprende che, quello che serve ai combattenti della Resistenza, è una figura materna: molti di loro, infatti, sono ragazzi giovanissimi che avvertono la lontananza di casa, delle fidanzate e dei genitori. Sarà così che diventa «mamma Agnese» (p. 125), la dolce donna di mezz’età che li cucina, li prepara il caffè e li “rammenda” i calzini. Agnese si dimostra sia “una madre” attenta e diligente, sempre pronta a fare la sua parte, sia un’abile combattente, alla quale è affidato dal «Comandante» (p. 115) il compito di staffetta: deve consegnare armi, cibo e messaggi ai vari distaccamenti partigiani, oltre a quello di organizzare tutte le altre “messaggere” della brigata.
Agnese non ha niente dell’eroina, non è mossa da idealismi e non compie, almeno ai suoi occhi, imprese eroiche. Si “limita” a eseguire gli ordini e così che quei viaggi in bicicletta (aggravati dall’età e dalla corporatura affatto esile) assumono una connotazione più umana e meno idealizzata. Unirsi a quelle brigate significa per Agnese prendere atto che «quella vita non era fatta per durare» (p. 92) e che quindi ogni giorno era un’occasione in più per aiutare quei ragazzi:
A un tratto ebbe voglia di vedere l’Agnese, la sua faccia dura, di udire la sua voce dura quando diceva: «Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona» ed erano sempre cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e quasi vecchia [...]. (p. 194)
La protagonista è indubbiamente Agnese (dall’altronde, tutta la storia è raccontata dal suo punto di vista), ma quello che racconta l’autrice è molto più ampio e profondo della storia della lavandaia. Intorno a lei, si muovono oltre che i partigiani, anche i civili che mostrano le contraddizioni di una divisione non solo bellica ma anche ideologica. Agnese, così come gli altri, si scontra con le spie che ancora credevano nel Regime e con Gli indifferenti che non ne volevano sapere né dell’uno né dell’altro, preferendo astenersi da ogni azione, gesto o semplice parola pur di “non mettersi nei guai”.
Al di là dal ruolo della donna nella lotta partigiana, ancora oggi forse poco affrontato, quello che colpisce di più di L’Agnese va a morire è l'assenza di idealizzazione sia degli Alleati sia dei partigiani. L’autrice, infatti, non cerca di impietosire o di intenerire, anzi il suo è un racconto sincero, che mostra, quindi, anche gli sbagli di chi era dalla “parte giusta”. I partigiani litigano, si insultano ma non perdono mai quella fratellanza e quell’umanità che caratterizza, alla fine, tutta la lettura. La lotta resistenziale si fonde con la quotidianità degli ultimi anni di Guerra, quando i bombardamenti, i rastrellamenti e le deportazioni sembrano la nuova (e drammatica) normalità cui tutti sembrano essersi abituati ma non rassegnati.
La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche. Un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra, se ne accorgevano quando si bruciavano. (p. 158)
Giada Marzocchi
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