in

I sor Gaudenzio e le signore Martina del Piemonte post-unitario. Il recupero di un classico della scapigliatura umoristica con "Alpinisti ciabattoni" di Achille Giovanni Cagna

- -
Alpinisti ciabattoni Achille Giovanni Cagna

Alpinisti ciabattoni
di Achille Giovanni Cagna
Capricorno, febbraio 2025
 
Postfazione di Gianni Oliva
 
pp. 176
€ 12,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)


I coniugi Gibella venivano dalle risaje della Lomellina; sfiaccolati dall'afa palustre, correvano a chiedere un po' di refrigerio alle fresche aure della riviera d'Orta. (p. 14)

Gaudenzio e Martina Gibella sono droghieri, hanno la loro bottega a Sannazzaro, un figlio maschio, e risparmi sufficienti per godersi questa vacanza che vagheggiano da tanti anni. Ma le cose a lungo desiderate non sono sempre all'altezza delle aspettative e la coppia deve constatare, con fastidio e disagio crescente, che in viaggio si possono incontrare compagni fastidiosi, che le opere d'arte non sono all'altezza, che il cibo non è buono e che le scampagnate possono essere pericolose: insomma, non c'è nessun posto bello come casa propria. 

«Io so qui a scavezzarmi, e voialtri dormite come caproni! Con tutto il vostro ben di Dio, la vostra casa, il vostro fondaco, non sarete mai altro che pecore da strupo... Oh beata falange degli ignoranti, tu andrai dritta nel paradiso delle oche!» (p. 61)

Sin dalla sua nascita, la borghesia è una classe sociale che viene descritta nelle sue piccinerie, presa in giro, in modo più o meno bonario, e che presta il fianco alla letteratura. Alpinisti ciabattoni di Achille Giovanni Cagna, edito da Capricorno, segue le grottesche avventure vacanziere dei coniugi Gibella che, dopo aver risparmiato una vita per potersi permettere una vacanza, non trovano il benché minimo conforto nella riviera del lago d'Orta
Serve un po' di contesto perché il nome dell'autore, a meno di non essere di Vercelli, Piemonte, non dice molto. Prendendo in prestito e parafrasando le parole di Marco Paolini in Vajont, è difficile capire perché anche i Cimbri, quelli della battaglia dei campi Raudii, volessero andarci a vivere; posso permettermi il parere da persona nata e cresciuta a Vercelli. Scarsa appetibilità e fama della città a parte, Achille Giovanni Cagna è stato uno dei rappresentati della scapigliatura piemontese: stipettaio mancato per scarso interesse e letterato autodidatta, apparteneva alla generazione di mezzo che non aveva vissuto l'eroismo risorgimentale e assisteva al pragmatismo per la costruzione di uno Stato che faticava a trovare una sua dimensione unitaria. La scapigliatura cercava un'evasione dalla sciacquatura dei panni in Arno e si dedicava quindi a una scrittura vernacolare e ribelle. Alpinisti ciabattoni, considerata l'opera migliore di Cagna della cui vasta produzione poco è ancora in commercio, ha vissuto varie fasi e storie di pubblicazione. Alla prima uscita del 1888, seguono altre edizioni nei primi anni del Novecento, più italianizzate, fino alla riscoperta dell'occhio fino di Italo Calvino che lo porta, nel 1971, nella collana Centopagine di Einaudi. Capricorno ha scelto di riportare tra le nostre mani la prima edizione del 1888, ricca di tutti i suoi dialetti e grafie arcaiche.

Come ogni opera umoristica, perché questo è Alpinisti ciabattoni, bisogna settare l'occhio e l'orecchio sull'epoca di composizione. L'Italia della seconda e faticosa rivoluzione industriale è indietro rispetto al resto d'Europa. La composizione sociale è tutta in divenire e i piccoli bottegai, impiegati, insomma, la piccola borghesia per classica definizione, stanno sperimentando nuovi modi di vivere. Ci si lascia andare alla «smania inglese delle scampagnate» (p. 115) e la nobiltà guarda con sussiegoso disprezzo «quella riviera troppo democratica, frequentata da bottegai in vacanza, ed altri consimili viaggiatori di terza classe» (p. 133). Pur senza alcun riferimento politico, se non una piccola scaramuccia sulla figura di Garibaldi a cui nessuno presta attenzione, si ricostruisce uno spaccato della società piemontese post-unitaria.

Gaudenzio e Martina sono delle macchiette, con scarsa cultura e una matrice di fondo da benpensanti e probiviri tanto da non poter riconoscere il nipote illegittimo avuto dal loro unico figlio, Leopoldo. Giudicano come «purcarii» (p. 91) le effusioni di una giovane coppia e anche le bellezze artistiche del luogo non sono altro che chiese come tutte le altre: a che pro, andare lontani dal proprio paesello, comodo e sicuro? Tra un ossobuco che non sa di niente, le scarpe che fanno venire le vesciche e le scampagnate che li portano a perdersi appena si allontano di due passi dalla locanda, i coniugi Gibella sono solo un tassello della scanzonata fauna del lago. C'è il cameriere in licenza che ha indossato il soprabito del padrone e si è messo le gramaglie da lutto perché le ritiene più raffinate; l'impiegato contabile che cerca di raggiungere la sua amante, una donna sposata, nella località di vacanza; il professore che ricerca la storia locale e finisce per generare una gran confusione nella testa di Gaudenzio che si convince che Garibaldi sia stato vescovo di NovaraQuesta chi l'avevi propri mai sentìda!» (p. 61)

In quanto appartenente a una corrente letteraria sperimentale, il dialetto non manca, soprattutto in questa edizione che riprende quella del 1888. L'editore, nella nota iniziale, lo vede come «una solida linea macaronica che da Cagna e dal suo amico Faldella arriva dritta fino a Gadda (e, perché no? a Camilleri, magari passando per Govi)» (p. 5), ma nonostante questo, i richiami alla letteratura più alta sono solidi. Le descrizioni lacustri riecheggiano di rami di altri laghi e di addio ad altri monti; l'arrivo alla locanda dove si consumano pasti pantagruelici per sole due lire e mezzo non ha niente da invidiare alla calca disperata degli ultimi gironi dell'Inferno dantesco. 

Se il droghiere avesse potuto intendere il lascivo lenocinio dei versi, egli nel suo grossolano buon senso di commerciante e padre di famiglia, avrebbe forse risposto a quel poeta in gaudeamus: «Senti, figliolo, se vuoi estenuarti, piglia una zappa, una mazza, e sgranchisciti la schiena; ci guadagnerai se non altro nella salute.» (p. 40)

Il pragmatismo, non la retorica costruisce l'Italia. Ne è consapevole Gaudenzio, nel suo orizzonte da bottegaio, ne è consapevole il professorino che sa che il figlio Carlino, di buona levatura morale e viva intelligenza, non farà mai soldi. I coniugi Gibella potrebbero essere visti come maschere teatrali della classe sociale che, di lì a non molto, avrebbe fatto da base per l'affermazione del regime fascista. Ma stiamo precorrendo i tempi. Quello che è sicuro è che Cagna ha fatto buon uso dell'umorismo come lente di interpretazione del mondo a lui circostante e i sor Gaudenzio e le signore Martina entrano di diritto nei personaggi del folklore letterario italiano, anche senza alcun latinorum a supportarli.

Giulia Pretta