La parola e la sua ombra - Riflessioni sulla lingua
di Alejo Carpentier
Edizioni Arcoiris, dicembre 2024
Traduzione e cura di Marcella Solinas
pp. 84
€ 12 (cartaceo)
Si dirà che i nomi francesi e italiani, essendo scritti con i nostri stessi caratteri, presentano problemi diversi. Comunque, nella maggior parte dei casi, siamo condannati a pronunciarli in modo rozzo, anche se accentuiamo "Chopén" con elegante sonorità nasale. Oppure facciamoli pronunciare a quel cattedratico, un piccolo nero cubano, che un giorno mi chiese: «Ha letto le poesie di Mayamé?». Si riferiva a Mallarmé. (p. 35)
Alejo Carpentier, scrittore, critico e giornalista cubano nato in Svizzera e morto a Parigi - come ci ricorda la curatrice e traduttrice del volumetto, Marcella Solinas - è uno di quegli autori latinoamericani che passa sempre in secondo piano quando parliamo di grandi nomi come Borges, Cortazar, Marquez, Vargas Llosa, nonostante sia riconosciuto come uno dei precursori della corrente letteraria che afferisce al realismo magico, da lui chiamata real maravilloso (quasi lo preferisco).
E pure passa in secondo piano la sua carriera giornalistica - più di cinquemila articoli tra articoli, reportage, cronache (le cronicas che tanto mi ricordano Pedro Lemebel) - perché in Italia emerge di più la sua produzione narrativa. Famosi sono i suoi romanzi Il secolo dei lumi, Il regno di questo mondo, I passi perduti e La consacrazione della primavera, nonché i suoi interventi di critica letteraria, come alcuni di quelli raccolti in questo testo, tutti afferenti alla questione della lingua, alla sua evoluzione, al modo in cui cambia e muta nel tempo.
Ancora alcune parole della curatrice nella prefazione: «Il tema del linguaggio ha rappresentato per Carpentier una delle "ossessioni" intellettuali più ricorrenti. Infatti, varie riflessioni presenti nelle cronache degli anni Cinquanta sono state successivamente rielaborate e approfondite in diversi scritti, trovando particolare compiutezza nel saggio "Problemática del tiempo y el idioma en la moderna novela latinoamericana», pubblicato circa vent'anni dopo e basato su una conferenza tenuta all'Università Centrale del Venezuela nel 1975» [...] l'interesse di Carpentier per il linguaggio non si limita, però, all'aspetto stilistico e si estende a una dimensione storica. Nelle cronache, l'autore esplora il linguaggio come espressione dell'anima di un popolo, un mezzo di comunicazione in grado di riflettere la storia, la letteratura, la musica e il patrimonio spirituale di una nazione e di un continente. Per Carpentier, la lingua rappresenta un elemento imprescindibile per l'affermazione di un'identità e di una cultura americana. (pp. 17-19)
Carpentier, in questi articoletti raccolti nel volume, quasi tutti risalenti agli anni '50, affronta varie tematiche intorno alla lingua: la differenza tra parola scritta e orale, la questione dell'adozione di una lingua universale (molto divertente che l'autore ipotizzi che ci sarà una lingua più o meno comune a tutti - come oggi è l'inglese - e che però non ne contempli la realizzazione a quel tempo), la critica all'aggettivazione spinta che, a suo dire, rappresenta un inutile orpello allo stile di un autore. Lo trovo opinabile, qui andiamo nel territorio dello stile, appunto, quindi non c'è una regola, ci sono autori e autrici che fanno dell'aggettivazione ricca e barocca una cifra, chi invece preferisce tenersi più prosaico, ma sono molto interessanti le sue considerazioni sul tipo di aggettivazione che viene usata a seconda delle mode, delle correnti letterarie, ad esempio:
Il Romanticismo, con i suoi poeti amanti della disperazione - sincera o simulata - ebbe un arsenale ricchissimo di aggettivi che suggerivano tutto quanto fosse lugubre, malinconico, lamentoso, tormentato, ululante, desolato, cupo, medievale, crepuscolare e funereo. I simbolisti riunivano aggettivi evanescenti, grigiastri, nebbiosi, vaghi, remoti, opalescenti, mentre i modernisti latinoamericani preferivano aggettivi ellenici, marmorei, versailleschi, eburnei, panici, faunistici, samaritani, compassati, singhiozzanti nei violoncelli, dorati all'alba; color assenzio se si trattava di nepenti, intanto che mostravano lieve e leggera l'ala del leggiadro ventaglio. All'inizio del secolo, quando l'occultismo divenne di moda a Parigi, Sar Péladan riempiva i romanzi di aggettivi che evocavano un mondo magico, caldeo, stellare e astrale. Anatole France, nel suo Vite dei Santi, utilizzò molto abilmente 'aggettivazione di Jacopo da Varagine per dare "un tono moderno" alla sua opera. I surrealisti furono maestri nel trovare e raffinare ogni aggettivo adatto a speculazioni poetiche sugli elementi fantasmatici, allucinanti, misteriosi, deliranti, fortuiti, convulsi e onirici. Quanto agli esistenzialisti di seconda mano, preferiscono il purulento e l'irritante. (pp. 38-39)
Oggi potremmo dire che, in quanto ad aggettivi, ci piacciono molto i decostruiti, i destrutturati, i fluidi, i femministi e i contro patriarcali no? e quindi ha ragione lui quando afferma che gli aggettivi rispecchiano il modo di descrivere e vedere il mondo a seconda del momento storico? Potrebbe.
Alcuni articoli affrontano la questione della purezza della lingua (parole straniere, esterofilie, parole intraducibili in lingua madre), altri ancora la parola e il suo rapporto con la musica e i compositori.
Insomma un libricino breve ma che dà l'occasione a chi non lo conosce di esplorare il lavoro grandissimo di un autore troppo poco valorizzato.
Deborah D'Addetta
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