in

Il lato oscuro del "Miracolo economico": Luciano Bianciardi, "La vita agra"

- -


 



La vita agra
di Luciano Bianciardi
Feltrinelli, 2013 (prima edizione 1962)

pp. 208
€ 10,45 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

Quassù io ero venuto non per far crescere le medie e i bisogni, ma per distruggere il torracchione di vetro e cemento, con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro. Mi ci aveva mandato Tacconi Otello, oggi stradino per conto della provincia, con una missione ben precisa, tanto precisa che non occorse nemmeno dirmela. E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? […] Posso dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, […] credi pure che la vita è agra, lassù.

La “sindrome dell’epoca d’oro” è un processo cognitivo che porta le persone a idealizzare un passato, vissuto o meno, considerato migliore rispetto all’oggi: dinamica illusoria e viziata dalla soggettività, narrazione rassicurante (“era tutto più semplice”, “eravamo felici pur non avendo nulla”, “si stava meglio quando si stava peggio” e via delirando), è un tranello connaturato alla mente umana in cui quasi tutti, prima o poi, cadiamo in un modo o nell’altro.

Facciamo un esempio: un’epoca passata, spesso presa a modello, decantata, mitizzata (ogni tanto ci casco anch’io che sono un baby boomer) è il periodo dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, effettivamente singolare sotto diversi punti di vista, rivoluzionario e innovativo, sicuramente irripetibile.

Tanti sono gli aspetti positivi che emergono da uno sguardo generalizzato su quegli anni, dalla musica alle conquiste politiche e sociali, dalla letteratura alle arti figurative, dal cinema al progresso tecnologico, a un aumento del benessere almeno per una parte della popolazione: insomma, un periodo di profondi cambiamenti che ha stabilito alcuni “punti di non ritorno” che hanno segnato la strada per gli anni successivi.

Davvero un’epoca d’oro, dunque? Beh, non proprio. Luciano Bianciardi, con La vita agra, ci offre una testimonianza diretta, impietosa e senza ipocrisie sul periodo in questione; romanzo parzialmente autobiografico, probabilmente il lavoro più conosciuto di questo autore scomparso prematuramente, La vita agra ci porta nella Milano di fine anni Cinquanta, al seguito di un giornalista (alter ego dello stesso Bianciardi) che si trasferisce da Ribolla, paese della provincia grossetana, non per motivi professionali ma con l’obiettivo di piazzare un ordigno nel palazzo (il “torracchione”) che ospita la direzione della multinazionale proprietaria di una miniera nella quale poche settimane prima erano morti in un incidente quarantatré minatori (fatto accaduto realmente nel 1954).

No, non un incidente, per la verità: una tragedia prevedibile ed evitabile, causata dal mancato rispetto delle norme di sicurezza da parte di una direzione negligente, irresponsabile e completamente disinteressata ai diritti e alla sorte dei propri minatori. Un crimine, in altri termini.

Il protagonista del romanzo, giunto a Milano, abbandona ben presto i propositi “esplosivi” dovendo far fronte alle necessità quotidiane; i soldi guadagnati come traduttore sono pochi e bastano appena per mangiare, mantenere moglie e figlio rimasti a Ribolla e per affittare un letto (non una stanza, non sia mai, in questo Milano era già Milano) in un minuscolo appartamento condiviso con altri quattro ospiti più affittacamere e figlie, in condizioni igieniche quantomeno discutibili. Solo in un secondo momento l’uomo potrà – a fatica – permettersi un piccolo appartamento insieme alla donna cui nel frattempo si sarà legato, creandosi così una seconda famiglia insieme a quella abbandonata in Toscana.

La vita agra è un romanzo intenso, crudo e a tratti disturbante. Altri recensori, di sicuro più competenti di me, lo definiscono ironico, alcuni addirittura divertente. Certo, l’ironia è presente ma non sortisce ilarità, è un’ironia amara, greve, sferzante, come quando descrive le condizioni di vita nell’appartamento condiviso con gli altri ospiti, la padrona di casa e le sue due figlie:

otto letti non sono uno scherzo, sono sedici lenzuola. Per questo la signora De Sio ce ne cambiava uno ogni quindici giorni: passava sotto quello di sopra, che si sporcava un po’ meno e aggiungeva il nuovo. (p. 14)

Bianciardi dedica la stessa ironia dolente alle persone incrociate mentre si recano al lavoro: operai con gli occhi gonfi di sonno che si muovono come automi, ragionieri con la camicia bianca e “due solchi profondi che partono da sotto le occhiaie bluastre e arrivano agli angoli della bocca”, segretarie con le gambette secche e le facce smunte e color della terra. Insomma, persone costrette nel ruolo paradossale di ingranaggi vitali di un sistema economico spietato che li rende a loro volta vittime. Un sistema che porta la precarietà del lavoro a livelli estremi, con l’onnipresente spettro del licenziamento come strategia volta a ridurre il lavoratore a una dimensione meramente funzionale.

A onor del vero, qualche pagina divertente si può trovare, ad esempio quando Bianciardi descrive le serate in compagnia di artisti, scrittori e wannabe intellettuali al caffè Giamaica (nel romanzo è chiamato Antille) nel milieu della Milano storica degli Scapigliati, tra via Fiori chiari e via Fiori oscuri, quella zona Brera oggi caratterizzata essenzialmente dai dehor dei bar, oppure quando il protagonista si trova a fare spese al “bottegone”, ossia un supermercato (novità assoluta per l’epoca), disorientato fra cataste di scatole colorate, musica di sottofondo e “un carrettino di fil di ferro che devi riempire di merce”. Ma ciò che più lo stupisce è la vista dei clienti (gli “emitori”) alle prese con acquisti eseguiti “con gesti da macumbati”,  prigionieri di un ciclo ininterrotto di consumi in gran parte superflui.

Un romanzo amaro, triste, che narra di una Milano fredda, nebbiosa e ostile, ben diversa da quella “da bere” degli anni Ottanta e da quella al limite dell’overtourism di oggi. Nonostante ciò un lavoro esemplare, per il tema trattato, per la prospettiva non scontata e soprattutto per uno stile impareggiabile, per l'ironia dolente che mai scivola nel sarcasmo, per quei passaggi che, quando descrivono i personaggi attraverso il loro parlato, riportano al Gadda del Pasticciaccio.

Luciano Bianciardi è mancato a neanche cinquant’anni, nell’ormai lontano 1971, e quindi la sua produzione letteraria non risulta particolarmente copiosa. Eppure quello che ci ha lasciato è materiale preziosissimo per conoscere un’epoca (mai stata d’oro e drammaticamente attuale) e per capire quelle successive.

Stefano Crivelli