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Da Ninive a Londra e poi a Napoli: una traversata nei secoli sulle tracce di un’antichissima regina. “La Babilonese” di Antonella Cilento riflette sul valore della scrittura

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La babilonese
di Antonella Cilento
Bompiani, 18 settembre 2024

pp. 384
€ 20,00 (cartaceo)
€ 13,99 (eBook)


La babilonese di Antonella Cilento è un poderoso romanzo difficile da classificare, in quanto presenta un doppio impianto narrativo, storico e insieme fantastico, una scelta autoriale che va contro quella che è ultimamente la tendenza dominante della produzione letteraria e cioè l’autofiction. Il libro è costato all’autrice ben sette anni di lavoro; il punto di partenza, come Cilento stessa informa nei Ringraziamenti finali, intitolati allusivamente A margine della notte, è stata una mostra al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) nel 2019, intitolata Gli Assiri all’ombra del Vesuvio. In quell’occasione l'autrice ha fatto un incontro sconvolgente:
Un bassorilievo ritrae il meraviglioso giardino di Assurbanipal, re del mondo, che i greci chiamarono Sardanapalo, guerriero, matematico, cacciatore, bibliomane: fiorito di palme e di pini d’Aleppo, intrecciato di viti, ospita il re steso su un letto mentre beve in compagnia di sua moglie, Libbali, seduta su un trono ai suoi piedi. Le ancelle suonano l’arpa o sventolano flabelli, porgono vivande, rinfrescano i sovrani, mentre a un pino è appesa la testa mozzata di Teumman. Secondo la nostra datazione, siamo nel 653 avanti Cristo. (p. 343)

Libbali: è lei la babilonese, la donna da cui ha origine tutta la narrazione, l’Eva di questa storia. In apertura, il lettore è catapultato in un contesto esotico e quanto mai lontano nel tempo: Ninive, presso la corte di Assurbanipal, magnifico re mesopotamico, e Libbali ne è la regina. Come l’immagine delle riproduzioni in gesso del bassorilievo assiro-babilonese che Antonella Cilento ha visto al MANN, i due sovrani banchettano in un sontuosissimo palazzo coi suoi giardini pensili di cedri, pini, viti, ulivi. Alla sinistra di Libbali, c’è la testa di un uomo appesa al ramo di un albero. Non è quella di Teumann, come il rigido sovrano farà credere, ma del mago ebreo, Avhiram, l’amante della regina, la quale, come si conviene al suo ruolo, non manifesta in pubblico il suo dolore, ma sorride a suo marito. 

Come il lettore scoprirà, subito dopo grazie a un flashback, il matrimonio regale non era felice e non era basato sull’amore: Assurbanipal preferiva intrattenersi con giovani bellissimi ed era entrato nel letto di Libbali solo per generare eredi. Avevano avuto ben quattro figlie, ma nessun maschio. La regina aveva scoperto l’amore e la passione travolgente più tardi, solo quando nel regno era entrato in catene un giovane mago ebreo dagli occhi color del cielo e i capelli ramati, seguito da sua figlia Yeoudith,  una bella bambina bionda, dagli occhi chiari anche lei. 

Quando il sovrano scopre la tresca, la sua vendetta si abbatte sul mago ebreo e sulle quattro piccole principesse avute da Libbali, con l’aiuto del viscido funzionario Acherib: il primo viene decapitato e le bambine bruciate vive in un incendio. Accecata dall’ira la donna riesce ad avere la meglio sul malvagio consigliere di suo marito e lo uccide con una profonda coltellata al petto. Restare a Ninive è ormai impossibile per la donna, il re la farebbe uccidere in segreto per raccontare poi al popolo la bugia della pazzia della regina e potersi unire in nuove nozze con un’altra giovane donna. Ma che ne è stato della figlia del mago ebreo durante quella giornata di orrori? La piccola Yeoudith è riuscita a salvarsi e compare al fianco di Libbali cercando la sua protezione: la bambina reca con sé una lanterna che fa luce nei corridoi bui del palazzo e così le due riescono a scappare dalla città. Prima di lasciare Ninive, Libbali dichiara

tornerò. 
Se il dio Luna Sin fa reincarnare Acherib e Assurbanipal, io tornerò. Quattro volte o quaranta volte quattro, se serve. Una per ogni mia figlia. (p. 40)

Quattro incarnazioni, quattro nomi che sono gli anagrammi della sua esistenza: Libbali, Alienor o madame Ballu, Albalì, infine Alice, scrittrice e insegnante di scrittura creativa (alter ego della nostra autrice?). E ogni sua reincarnazione ha il suo amante dagli occhi azzurri e i capelli ramati, e, ovviamente, la bambina con l’inseparabile lanterna. Dal 653 a.C. si vola direttamente al 1848 a Londra, al cospetto del giovane archeologo Henry Layard, colui che aveva scoperto i tesori delle antichissime città assire in Mesopotamia. L’uomo è bello, affascinante e le donne pendono dalle sue labbra quando racconta degli scavi, delle tavolette coi caratteri cuneiformi, calici e ori finalmente riportati alla luce:

Bellezza, carisma, una sorta di eterna giovinezza lo illuminano di entusiasmo. Henry ne è consapevole e, come un attore shakespeariano, si fa largo nella folla con in mano un calice e: “guardate!” Si concede il lusso di inumidire la pietra dei rilievi nel vino. I cunei brillano, come mosaici lavati, e le signore cinguettano: è un redivivo Ulisse o una più brillante e seducente incarnazione di Horatio Nelson. (p. 51)

In Layard però brucia ancora un grande desiderio: quello di riportare alla luce anche Ninive dopo la scoperta di Nimrud e un sogno sarà davvero rivelatore. Una misteriosa donna con i piedi dipinti con l’henné e gli occhi di onice, sempre seguita da una bambina bionda e dagli occhi azzurri,  lo tormenta nei sogni facendo emergere un segreto da passato di lui: quella donna di una bellezza così singolare è Lionora, la quindicenne che aveva amato a Cipro ora tornata da lui per fargli pagare il suo abbandono? E quella bambina, è forse la figlia avuta da lei? In bilico tra ricordi  che vuole cancellare e incubi febbricitanti, quella donna gli ripeterà più volte il nome di un luogo in Mesopotamia, la collina di Quyungiq. È lì che bisogna scavare a portare alla luce il regno di Sardanapalo.

Dopo l’incursione a Londra, la narrazione si sposta a Napoli, ma in periodi diversi: nel 1656, nel 1683, nel 1881 e negli anni Duemila. La regina si incarna in altre donne ed è ora strega, negromante, fino alla scrittrice napoletana Alice. Lascio al lettore tutto il piacere di immergersi in quelle che secondo me sono le pagine della storia più coinvolgenti. Intrighi, desideri inconfessabili confessati a mummie con le orecchie (reperto storico che è possibile vedere a Santa Luciella dei librai, a Napoli), commerci di mummie false, storie di artisti giocolieri della luce e delle tenebre sulla scia di Caravaggio, di nobili decaduti, di gente comune e di viceré spagnoli. Una Napoli distrutta dalla peste, corrotta come il profumo di una rosa marcita, scrigno di tesori nascosti e di bellezze alla luce del sole, ma sempre accogliente verso chi non è napoletano.

Giuseppe Astarita ha sempre pensato di esser cresciuto in una città accogliente, che, non fossero venuti gli spagnoli, mai avrebbe cacciato i librai ebrei che la rendevano celebre e che ha nascosto, finché ha potuto, il filosofo Giordano Bruno e pure quel povero cristo di Michele Angelo da Caravaggio. Una città che i mori li ha sempre trattati, forse perché nei secoli passati molti parenti di sant’Agostino vennero a rimpinguare la popolazione dal nord dell’Africa, estinta dagli assedi longobardi. In fondo, a Napoli, essere greci, francesi, inglesi, spagnoli, tedeschi, ebrei o turchi non ha mai fatto differenza, perché alla fine tutti diventano napoletani. (pp. 102-103)

La copertina del libro, realizzata dalla sorella illustratrice Iole Cilento, è emblematica: una donna che fugge di notte, tenendo per mano una bambina. La fiamma della lanterna è la testa stessa della regina che ha in mente un solo obiettivo, quello di vendicarsi dell’uomo che le ha tolto l’amore e le figlie. Il felino che segue le due figure nell’illustrazione è simbolo stesso dell’odio e della vendetta.

La babilonese è un romanzo in cui la storia incontra la finzione e i diversi personaggi reali, intellettuali, artisti soprattutto, interagiscono con quelli partoriti dalla fantasia della scrittrice. Un connubio che traduce uno stile di scrittura, una presa di posizione, una scelta letteraria. Antonella Cilento è decisamente abile nel tratteggiare senza dilungarsi nelle descrizioni, luoghi, caratteri, ambienti che appartengono al passato e che testimoniano l’infinito amore della nostra per l’arte, la storia e per la sua Napoli, una Napoli-Ninive perché, come aveva notato Curzio Malaparte ne La pelle: «Napoli è la più misteriosa città d'Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo».

La babilonese è, ancora, un romanzo multitematico, che trapassa diverse epoche e fa riflettere non solo sul desiderio di vendetta di una donna e sull’amore perduto, ma anche su temi cari all’autrice, spesso tabù: il desiderio e il piacere femminile (basti pensare al romanzo Lisario o il piacere infinito delle donne) viene fuori in modo prepotente nella storia della zitella Filomena Argento, che si tormenta ogni notte dopo aver incontrato e visto nudo il bellissimo Alan Cochrane, oppure il desiderio omosessuale del povero Agrippino. In questi passaggi l’autrice non può non dire la sua, tra l’ironia, lo sdegno e la compassione:

Certo, se a scrivere qui, oggi, fossero stati Dickens o Balzac, Cechov o Mastriani, niente si sarebbe potuto nominare, men che meno lo sperma - in lingua locale sfaccimma, che sta a indicare anche faccia tosta, intraprendenza o per controverso stronzaggine, a seconda di come la parola appare nella frase: stu sfaccimma! - e tanto meno la profanazione erotica e spiona della madonna Assunta di Filomena Argento. Non ne sarebbero trovati che pudichi, ma ammiccanti, cenni in francesi meno pii, come Maupassant, e ci sarebbero voluti altri anni ancora prima di cadere nelle pagine segrete di Apollinare o in quella celebri di Lawrence. Ma in nessun caso ci sarebbe stata una versione femminile della questione, poiché, anche a usare scrittori più recenti ci sarebbe, sì, un pullulare anatomico di sborre cazzi fesse fregne peli e buchi ma di nuovo privi del tutto del punto di vista della povera Filomena […]. Insomma, c’è il problema che a dire il sesso sono stati per migliaia d’anni gli uomini e quando, da cent’anni o poco più, sono in ballo le donne, ecco che il dettaglio è in fine calcato sulla fantasia maschile. (pp. 264-265)

Un altro tema che percorre tutto il romanzo è la memoria, il bisogno connaturato all’uomo di ricordare, immagazzinare dati, fatti, immagini dalle tavolette d’argilla mesopotamiche fino ai nostri odierni dispositivi elettronici. Ci sono ricordi piacevoli da evocare e altri che invece recano dolore e sofferenza: in ogni caso la testimonianza della vita passata, nostra o delle civiltà antiche, sono una realtà con cui confrontarsi perché spiegano il presente che siamo e che viviamo.

Esprimere un giudizio su un libro così curato, dalla copertina alla struttura interna della storia, è davvero arduo. La babilonese è un romanzo dal peso specifico rilevante per la cura e la passione per la scrittura che trasudano dalle pagine, tuttavia per onestà devo ammettere che ho trovato faticoso ricordare tutti i nomi e i personaggi incontrati via via a spasso tra i secoli. I voli spazio-temporali così densi di materiale narrativo, secondo me, rischiano di penalizzare il romanzo con la loro dispersività. Ho notato un forte stacco tra le diverse ambientazioni: questo esito è forse fisiologico e può darsi anche che qualche lettore potrebbe apprezzarlo e considerarlo un elemento positivo di varietà; secondo i miei gusti, questa scelta narrativa ha reso tutto il lavoro poco armonico. Lo sbilanciamento quantitativo della storia verso la parte “napoletana” contrasta con le altre sezioni contenenti altre epoche storiche e luoghi: queste pagine non eguagliano in freschezza, autenticità, vividezza e disinvoltura stilistica quelle ambientate a Napoli. Altra criticità secondo me è la presenza per buona parte del libro di termini napoletani non sempre spiegati o tradotti. Da napoletana non ho avuto difficoltà a leggere quelle pagine, ma ho provato a mettermi nei panni di chi non conosce questa lingua e mi sono posta questa domanda: è lecito chiedersi se un lettore non meridionale sia capace, senza chiose esplicative ben fatte, di cogliere le precise sfumature di alcuni termini napoletani senza perderne la vividezza, i colori e le immagini che evocano?

Marianna Inserra