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Le "Bestie in fuga" di Daniele Kong ci ricordano che nessun uomo è un'isola

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Bestie in fuga
di Daniele Kong
Coconino Press, 2024

pp. 600
€ 25,00 (cartaceo)

Se vuoi vincere la guerra
Sia per mare sia per terra
Fai in maniera che i cannoni
Siano pieni di maccheroni.

C'è un sonetto del poeta inglese John Donne divenuto ormai celebre ai contemporanei soprattutto per via del titolo e dell'epigrafe di un classico della letteratura del Novecento. Sto parlando di Per chi suona la campana di Ernest Hemingway, del 1940. Nel poema, John Donne scrive che "Nessun uomo è un’isola, intero in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto". Hemingway raccoglie la lezione di Donne, per il quale è la campana che suona a lutto a ricordare all'uomo che siamo tutti collegati da un unico, inesorabile destino. L'isola è di per sé un'immagine che risulta efficace nel concepire l'umanità come una costellazione di solitudini, eppure Donne evidenzia come l’individuo sia sempre connesso a una rete più ampia di relazioni, e dopotutto a un sentire comune di spaesamento. Perché, se è vero che nessun uomo è un’isola, è altrettanto vero che non è facile pensarsi continente, parte del tutto, il mondo laggiù, con le sue strade, i palazzi, le vetrine e il chiacchiericcio della gente.

Da strenuo difensore della dignità letteraria del graphic novel, non ho potuto fare a meno di esultare quando ho scoperto qualche giorno fa che un'opera-mondo in cui mi sono imbattuto all'inizio di quest'anno, un viaggio senza precedenti verso un'isola immaginaria del Tirreno, è stata proposta da Simonetta Sciandivasci per il Premio Strega 2025. Esistono prodotti talmente permeati di Storia, arte, politica, filosofia, cinema e musica da valicare non soltanto i generi letterari, in questo caso quello del fumetto, ma che creano un ponte tra le epoche, guardando ai fenomeni sociali e culturali appena trascorsi per parlare di oggi, di noi, del nostro mondo che cambia ma che rimane sempre sciaguratamente uguale. Per questo ho avuto bisogno di tempo prima di recensire Bestie in fuga, opera di esordio di Daniele Kong, perché avevo bisogno di darmi il tempo di comprendere la portata della sua epopea di seicento pagine, una narrazione corale in cui i sentieri incrociati dei personaggi si muovono dall’acqua alla terraferma.

Guidati da una colonna sonora che fa da playlist a ogni sezione del libro, Daniele Kong ci conduce negli anni Cinquanta, a Dieci, isola immaginaria e semidimenticata nel mezzo del Tirreno, dove la principale risorsa economica degli isolani è dovuta all'industria ittica di Tito Salini, arricchitosi dopo la guerra e con la grande ambizione di trasformare la sconosciuta Dieci in una novella Capri del basso Lazio. Attraverso lo sguardo analitico e nostalgico del protagonista, Franco, e grazie alle parole del suo diario, assistiamo all'arrivo sull'isola di Dieci della troupe cinematografica al seguito del maestro del Neorealismo, Augusto Campagnoli, alcolizzato, tabagista incallito e artista in declino, che cerca di risalire la china lavorando a un progetto in cui non crede sull'infanzia di Cristo, in un panorama cinematografico in cui non sembra esserci più posto per il cinema che racconta la verità, ma anzi che vuole fare del cinema uno strumento di distrazione di massa senz'anima.

È infatti per assecondare i voleri dei produttori cinematografici che piazzano nel cast fidanzate attrici di scarso talento allo scopo di farne Madonne improbabili e nipotini palestrati e coprolalici a interpretare dei Gesucristi senza arte né parte, che il nuovo film di Campagnoli ha tutti i requisiti per sembrare una catastrofe. Insieme a Campagnoli, arriva con lui al suo seguito a scompigliare i placidi equilibri di Dieci la figliastra Claretta, che rivendica la sua parlata romanesca e si diletta a strimpellare stornelli e a prendere il sole nuda, risvegliando Franco dal suo torpore. Oltre a Franco c’è Marcello, suo fratello, più audace di lui, il quale inizia una relazione con  Claretta a discapito del dolore di Franco. Zenobia, nobildonna caduta in rovina e madre adottiva di Franco, Marcello, da sempre oggetto dei desideri di Tito Salini, il postino marxista in bicicletta, Aucelluzz, e Nina, bambina-profetessa dagli enormi occhi neri, che verrà scelta per interpretare Gesù bambino nel restyling della pellicola di cui Campagnoli riprenderà gradualmente il controllo. 

E poi ci sono i pescatori di Dieci, che Kong disegna sempre colorandoli di nero, senza definirne i tratti somatici, perché è così che Franco li percepisce prima di aprire gli occhi e rendersi conto del mondo, come un’unica entità omogenea guidata da un sentire collettivo. Quando Marcello e Franco lasciano la scuola di Dieci per aiutare Zenobia guadagnandosi da vivere, i due fratelli inizieranno a rendersi conto delle controversie e delle contraddizioni del mondo. È dall’amicizia tra Franco e Claretta, che legge clandestinamente i diari di Franco, che Campagnoli si accorge del talento del ragazzo, e lo sceglie come sceneggiatore del nuovo film sulla vita di Cristo, e se lo porta a Roma per trasformarlo in scrittore.

È a Roma che inizia il secondo atto di questa storia, dove attraverso gli occhi di Franco cerchiamo di non rimanere indietro come gli abitanti di Dieci, in un carnevale di anime che si affannano per emergere e acquisire un senso, e non soccombere di fronte al vuoto di senso di una giungla urbana spietata, in cui tigri affamate scappano dal circo e si muovono tra i cantieri romani, prostitute perseguitate da spasimanti mentalmente instabili, militari marchigiani a caccia di fiere selvatiche in borgate deserte, a raccomandati senza talento e una Cinecittà dove il glamour dei peplum ha scalzato la cruda realtà di un paese disperato che sembra ancorato a un’immutabilità eterna come le mura di Roma.

Esiste un senso di continuità inesorabile tra la gentrificazione e la turistificazione di un locus amoenus eppure senza possibilità come l’isola di Dieci e un presente in cui si cerca di accaparrarsi ogni pezzo di bellezza come se ci appartenesse, e Kong, attraverso uno sguardo che è quello di Franco ma anche quello del lettore, e non lo fa per veicolare un messaggio, ma piuttosto per tracciare un affresco meticoloso dell’Italia, tanto del margine, della provincia, quanto del centro, della metropoli caciarona, sporca, chiassosa, gioiosa, afosa, in cui si resta seduti a sgranocchiare lupini e a scrutinare i passanti, e in quel vagabondare costante del pensatore, che sente di voler fuggire dall’isola, ma che quando fugge vorrebbe solo tornare, e senza capirne fino in fondo il perché, con la nostalgia propria soltanto di chi abbandona un posto perché si immagina che dietro il confine dell’orizzonte ci sia qualcosa di più grande ad aspettarlo. E l’amara presa di coscienza che in realtà, oltre quel confine, c’è solamente il resto del mondo, in cui servono atti tragicomici di bellezza e tenerezza a ricordarci che nessun uomo è un'isola.

Matteo Cardillo