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Una "città di ladri", cannibali e fantasmi: l’assedio di Leningrado nel romanzo di formazione di David Benioff

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La città dei ladri
di David Benioff
Beat edizioni, 2020

Prima edizione Neri Pozza, 2008
Traduzione di Marco Rossari

pp. 285
€ 12,50 (cartaceo)
€ 6,99 (eBook) 

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In una Leningrado ormai da molti mesi assediata, in cui da troppo mancano l’elettricità e i beni di prima necessità, il diciassettenne Lev cerca di darsi da fare come può. Con gli amici del palazzo fa parte dei “soldati del fuoco”, ragazzini che trascorrono le notti sui tetti gelati armati di estintori di fortuna per avvistare gli aerei nemici e intervenire in caso di incendi. Quando la madre e la sorella sono scappate dalla città, il giovane ha rifiutato di seguirle: si sente vocato alla causa, a un destino da eroeero un uomo e avrei difeso la mia città», p. 17). Poi, una sera, commette una serie di errori: abbandonare la postazione antincendio, violare il coprifuoco, raggiungere il corpo di un paracadutista tedesco in mezzo alla strada, rubargli il coltello, ma soprattutto, cosa ben più grave, farsi prendere. Una singola notte in prigione gli è sufficiente per realizzare di non avere affatto la stoffa del martire: Lev vuole vivere a ogni costo, gli mancano il coraggio e lo stile per il sacrificio:

l’assedio si era inasprito ma io non ero cambiato molto. La verità è che a gennaio non ero diventato più coraggioso di quanto non fossi a giugno: al contrario di quel che si crede, l’esperienza del terrore non ti rende più spavaldo. Anche se forse, quando te la fai sotto tutto il tempo, è più facile nascondere la paura. (p. 29)

La città dei ladri si configura fin dalle prime pagine come un romanzo di formazione, in cui il terreno della crescita è la città martoriata dalla guerra, e l’occasione un evento singolo, imprevedibile: in carcere, infatti, Lev incontra Kolja, giovane cosacco accusato di diserzione. Kolja sembra uscito da un manifesto di propaganda: è bello, sfrontato, sicuro di sé. Si prende gioco dei carcerieri e, lui sì, sembra avere quel profilo eroico che all’altro manca. I due – «il disertore e il ladruncolo» – vengono coinvolti loro malgrado in una missione pericolosa e straniante dal colonnello a capo dell’NKVD, l’organo brutale della polizia politica sovietica, a cui devono procurare dodici uova entro cinque giorni. Dodici uova, nella città in preda alla carestia, per poter cucinare una torta nuziale per la figlia, che pattina sulla Neva, rosea e tornita, mentre la città brucia. Dodici uova: obiettivo e oggetto magico, Graal irraggiungibile nella Leningrado sotto assedio, che porta i protagonisti – inconsueti antieroi – a vivere le più strane avventure.


Nonostante la loro giovane età, l’esperienza del conflitto rende Lev e Kolja pragmatici e disincantati. I due tuttavia mantengono anche una certa purezza dello sguardo, un animo fanciullino che ne fa protagonisti perfetti di una storia di formazione in cui il dramma può essere disinnescato con una buona dose di ironia e sangue freddo, un po’ di cameratismo e qualche sfacciato colpo di fortuna.


L’itinerario della crescita è diverso per i due personaggi. Lev scopre infatti che i mostri non sono solo i nazisti, ma sono anche uomini che la segregazione ha reso disperati e violenti; solo un senso morale che non sapeva di possedere e ora riscopre gli permette di non curarsi solo della propria sopravvivenza, ma di mettere l’amicizia davanti alla paura. Kolja invece, ancora addosso l’uniforme dell’Armata Rossa, ride di fronte al pericolo, lo sfida apertamente. La sua fragilità si nasconde altrove, in un libro mai scritto, ma che cova sotto le braci e su cui il giovane investe tutto. Kolja impara nel momento in cui cala la maschera e dice ad alta voce la sua verità, esponendosi al rischio del giudizio altrui.


L’opera intera, inoltre, è segnata dallo straordinario spirito affabulatorio che David Benioff trasferisce ai suoi personaggi; dal piacere della parola, della descrizione pungente, la battuta sagace, il dettaglio che si incastra nella memoria. Dal gusto del narrare, che si concretizza nell’invenzione di una cornice autobiografica che, stando alle interviste, è in realtà inesistente, ma convince perché offre un sostrato realistico a una storia incredibile, come nella miglior tradizione letteraria.

“Volevo solo essere sicuro di non sbagliare niente”.

“Non sbaglierai”.

“Questa è la tua storia. Non voglio mandare tutto a puttane”.

“David…”
“Ci sono un paio di cose che ancora non tornano…”

“David” ha detto, “sei tu lo scrittore, inventa”. (p. 13)

Allo stesso tempo, il gusto del narrare si avverte anche nella consapevolezza metaletteraria di Lev, quando si rende conto che la vita gli ha riservato il ruolo dello scudiero, e non dell’eroe, e chiarisce quindi la sua funzione all’interno della vicenda, che è quella dell’osservatore attento, dello spirito critico, di colui che ha tanto ancora da imparare su come si sta al mondo:

Quella non era la sola ragione per seguirlo. Kolja era un pallone gonfiato, un saputello, un cosacco bastonatore di ebrei, ma la sua insolenza era così sincera da non risultare tanto arrogante, quanto il carattere distintivo di un uomo che aveva un grande avvenire eroico. Certo non me le ero immaginate così le mie avventure – avrei preferito essere il protagonista, non la spalla dall’aria buffa – ma la realtà aveva ignorato i miei desideri fin dall’inizio, dotandomi del physique du rôle di un bibliotecario e iniettandomi così tanta paura nelle vene che, al dunque, ero riuscito solo ad accucciarmi sulle scale. […] Avevo ereditato il pessimismo dei russi e quello degli ebrei, due tra le popolazioni più cupe della storia. Eppure, se in me non c’era niente di grande, forse mi restava il talento di riconoscerlo negli altri, perfino nei personaggi più irritanti. (p. 111)

Grazie alla intelligenza dell’autore, la leggerezza sfiora continuamente il dramma, senza mai metterlo in ridicolo. Perché i protagonisti sono due giovani che crescono, e dei giovani mantengono lo spirito, ma portano su di sé il peso di eventi troppi grandi, per loro e in assoluto. Il dato storico è quindi restituito con precisione, senza tentativi di addolcirlo, anche quando brutale. Si percepisce, nella narrazione, il lavoro di ricerca fatto da Benioff – in merito alle condizioni di vita nella Russia staliniana, all’invasione tedesca, alla Resistenza sovietica nelle campagne.


La violenza è qualcosa che riguarda ambo i lati delle mura di Piter (come viene chiamata affettuosamente la città dagli abitanti), che coinvolge entrambi gli schieramenti in guerra. Sono violenti i soldati tedeschi che usano i cani come mine anticarro, le squadre della morte naziste (l’Einsatzkommando) che seguono la Wehrmacht per «dare la caccia alla selvaggina», seviziare donne e mostrare al mondo cosa succede ai comunisti dove passano i tedeschi; ma non è poi così diversa la polizia politica russa, e anche nella città assediata, tra calcolo e animalità, viene versato il sangue.


Dovunque i due giovani si trovino nella loro stravagante caccia all’uovo, anche quando si addentrano nelle steppe innevate fuori da Leningrado, devono confrontarsi con le asperità e le contraddizioni dell’animo umano. Tanto lo spirito disilluso di Lev quanto quello poetico e scanzonato di Kolja non possono fare a meno di mettere in evidenza l’assurdità di ciò che li circonda, i livelli a cui si può spingere un individuo che non ha più nulla da perdere.


La dinamica guerra/gioco viene continuamente chiamata in causa, anche nei momenti più tragici: quella alle uova è una caccia al tesoro impossibile, la sopravvivenza dei protagonisti è legata a una partita a scacchi fatale… e Lev e Kolja accettano sempre la sfida, mossi tanto dalla necessità, quanto dalla incoscienza della loro giovinezza. Questo fa di loro due personaggi estremamente convincenti, a cui è impossibile non affezionarsi per il modo in cui vivono la loro amicizia appena nata e affrontano ogni situazione, anche le più insensate. E questo non può che rendere più doloroso e perfetto il finale, di cui nulla si può dire se non che è imprevisto, e foriero di commozione.


Quando ho preso in mano il volume di David Benioff, nutrivo la non troppo segreta speranza di poterlo proporre a scuola. Le mie aspettative in tal senso si sono arenate su un uso eccessivamente disinvolto della lingua e dei riferimenti licenziosi, che il singolo docente dovrebbe valutare attentamente. Nonostante questo, però, La città dei ladri rimane un romanzo travolgente, che conquista e lascia traccia per le tematiche affrontate e per la sapienza narrativa con cui entra nel vivo dei sentimenti, delle relazioni, e del contesto storico che vuole rappresentare.

 

Carolina Pernigo