facile,la gente pensa che sia una facile. No, non facile nel senso che pensate voi. Non pensano che io sia una facile da portarsi a letto. No, per quello s'impegnano. Poco, ma s'impegnano. La gente pensa che io sa facile perché capace di farmi scivolare le cose di dosso. Niente drammi. Niente insicurezze. Sono una a cui non interessa. Una facile insomma. A quanto pare, sono io stessa a suggerirlo. (p. 34)
La prima sensazione, aprendo Lettere minuscole, è di spaesamento: cosa ha fatto l'autrice con la punteggiatura, l'impaginazione, i grassetti, gli accapo? Niente è prevedibile, e questa è la prima osservazione che emerge già a prima vista. E poi, leggendo di pagina in pagina, si capisce che la sperimentazione di Ilaria Grando non si ferma all'aspetto tipografico del testo, ma va oltre.
Tanto per cominciare, Ilaria Grando, già avvezza al mondo del racconto, scrive un romanzo per frammenti, che si rincorrono tra di loro, talvolta raccordandosi, talaltra accostandosi per analogia tematica o per evidente antitesi. A decidere per lo strappo o la consonanza tematica è in ogni caso sempre e soltanto l'io narrante, una giovane donna che sta vivendo un periodo di crisi personale. E questo sovverte l'ordine cronologico, le sue priorità e confonde passato e presente nel ricordo. Ad averla particolarmente segnata ci sono storie con uomini che non hanno niente di romantico (o almeno non è questo aspetto a essere fermato dalla scrittura); sono stati piuttosto incontri fagocitanti, che attraverso il corpo hanno cercato di supplire a una comunicazione zoppa (per mancanza di volontà o per incapacità?). Gli uomini che rintoccano più di frequente sono chiamati solo con una lettera minuscola: "emme" ed "esse" sono le presenze-assenze principali, gli ex che hanno inciso brutalmente la vita della protagonista.
Anche di queste storie si raccontano episodi slegati, tutti da ricomporre; pare solo che nel sesso (raccontato molto bene, senza tabù e senza sensazionalismi) i ricordi della protagonista rallentino e qualche scena scorre piano, sinuosa. Viceversa, nella maggior parte dei frammenti tutto corre, compresi i pensieri, i salti da una città all'altra dove la protagonista ha vissuto per un periodo della sua vita. Il tutto crea un effetto di inquietudine palese, che è specchio della paura di perdersi della protagonista. D'altro canto, l'autrice non dà modo ai suoi lettori di accomodarsi, perché subito passa a un nuovo frammento, ora indirizzato a un amore del passato, ora ai lettori, ora a nessuno in particolare.
Anche lo sguardo dell'io narrante cambia: di frequente la vediamo osservarsi dall'esterno impietosamente, immaginandosi i giudizi da parte degli altri - conosciuti e sconosciuti che siano. Tale rifrazione continua e ben rappresentata da corpo: questo è una gabbia per sé stessa, mentre parti specifiche sono oggetto di ammirazione e di attrazione da parte degli uomini, altre volte ancora è una realtà che viene guardata, esplorata nella sua nudità. Spesso il corpo non è altro che un veicolo del suo sentirsi inadeguata, sbagliata, fuori dal tempo e dallo spazio. Consapevolezza di sé e disagio sono tutt'uno, così come sentirsi incapace di andare oltre (al contrario di "emme" e di "esse", ma anche di tanti altri che danno consigli non richiesti). L'unico percorso, accidentato ma ricercato ossessivamente, è procedere a tentoni per cancellare la sofferenza.
Lo scollamento tra sé e gli altri invade la quotidianità della protagonista, che a volte si scontra anche con amiche che vorrebbero aiutarla, pur non riuscendo a capirla fino in fondo. E così arrivano i tentativi di porre fine alla sofferenza con atti di autolesionismo, con il coprirsi di tatuaggi che cancellino quella pelle condivisa da chi non ha esitato a lasciarla. Certo, c'è anche la terapia, ma la psicologa, che compare e scompare dai frammenti, è solo uno dei tanti supporti che la protagonista prova a darsi; non pare né il più efficace né il più confortante. Neanche i genitori riescono a tamponare questo dolore, che sguscia attraverso le giornate e torna a mordere. I pensieri di morte possono infatti tornare; semmai la scrittura ha un potere catartico, per quanto si tratti di una scrittura consapevolmente in minore. In ogni caso, «l'inchiostro (come il ricordo) si rifiuta di abbandonarti» (p. 36).
Queste piccole note del quotidiano, spiazzanti già nel loro aspetto formale, mi hanno dato spesso un turbamento e ho dovuto attendere più pagine per capire da dove derivasse: da un tentativo spesso disperato di annullare il dolore ricorrendo all'impersonalità. Frasi brevi, brevissime, singhiozzanti per i tanti punti che le frangono. Azioni minime, eppure ritenute degne di essere ricordate, fermate sulla carta, non fanno che testimoniare il disagio della protagonista. Anche quando, come lettori, ci possiamo chiedere: per quale motivo fermare un dettaglio irrisorio come questo?, in realtà occorre andare oltre, dare tempo all'opera perché sedimenti in noi. Solo così emergerà con schiacciante evidenza la portata dell'angoscia che trasuda da questi frammenti, che non mirano all'universalità, ma vogliono raccontare la storia specifica di una ragazza interrotta, che prende atto come può della sua dissociazione dalla realtà e dai sentimenti, di cui pare in completa balìa:
«Mi hanno detto che per scrivere delle cose bisogna starci dentro. Non ricordo chi è stato, ricordo solo di averlo appuntato su un quaderno e di aver pensato che, se era davvero così, allora non avrei mai scritto» (p. 76)
Lettere minuscole risulta così un'opera sperimentale interessante; il bisogno urgente di scrivere è soverchiante, così forte che qualche volta ha la meglio sul desiderio di raggiungere appieno il lettore. Non aspettiamoci una trama coesa; tra sprazzi di luce e di buio possiamo carpire - se stiamo attenti, molto attenti - gli indizi di un malessere che rischia di sfociare in disperazione e malattia.
GMGhioni
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