Il peso
di Liz Moore
NN Editore, 2022
Traduzione di Ada Arduini
Prefazione di Andrea Donaera
pp. 365
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Mi chiedevo perché ero stato scelto per la vita che stavo vivendo. Perché ero stato scelto per quella solitudine totale. (p. 284)
A vent’anni di distanza dal loro ultimo incontro, e quasi uno
dalla sua ultima lettera, la donna torna a farsi viva, chiedendo ad Arthur un
aiuto per il proprio figlio diciassettenne, Kel. Arthur è costretto così a fare
i conti con le bugie che si sono
stratificate e sedimentate nel tempo, come l’immondizia che si accumula nei
corridoi della sua casa, come il peso sul suo corpo. Per Arthur, del resto, la vita stessa è un peso, quel fardello
a cui – più che alla dimensione fisica – rimanda il titolo del volume. Lo
stesso peso che affligge in modo differente Charlene, instabile e devastata dall’alcool, ormai incapace
di occuparsi non solo del figlio, ma anche di sé stessa, e Kel, che deve
portare sulle spalle responsabilità di
accudimento che non dovrebbero spettargli. Giovane promessa del baseball,
Kel rischia di ipotecare il suo futuro
per paura di abbandonare la madre, sempre più sull’orlo del baratro e ormai
apparentemente irredimibile («Voglio
starle vicino. Dal punto di vista geografico. Voglio stare vicino a casa. […]
Due ore sono troppe. Mia madre non sopravvivrebbe», p. 128).
Il romanzo ci fa udire, prima a
sezioni, poi a capitoli alterni, le voci di Kel e di Arthur, ciascuno alle
prese con il proprio dramma, due esistenze
che dovrebbero scontrarsi e invece continuano a procedere parallele. Attraverso una prosa
asciutta, spesso dialogata, Liz Moore ci proietta nelle vite disperate dei protagonisti, fa
balenare lampi di possibilità che subito si spengono, travolti dagli eventi, e
indaga in profondità temi come la
solitudine, il senso della famiglia,
l’emarginazione sociale. All’interno
del romanzo, la fame è sempre ambivalente, materiale e affettiva; il cibo
diventa strumento di consolazione e autoconsolazione, i personaggi ne abusano,
ma può anche diventare linguaggio della cura per chi non ne possiede altri. La sovrabbondanza degli alimenti diventa
correlativo oggettivo, antifrastico, della mancanza
degli affetti, ma anche della necessità di trovare modi diversi, espressione
alternative, per supplire al malessere che non si riesce a dire.
Il profondo rispetto con cui vengono delineati i personaggi è ciò che genera l’empatia che travolge e ferisce il lettore, nell’osservare il lento disgregarsi di equilibri precari. Due sono i modelli possibili, sempre contrapposti: da un lato la tentazione, viscerale, di chiudersi in se stessi, di cercare rifugio dal mondo nell’isolamento – la via tentata da Arthur, ma anche l’ipotesi che sfiora la mente di Kel quando tutto gli scappa dalle mani:
A un tratto non voglio sapere niente: […] voglio ripiegarmi in me stesso fino a cessare di esistere, voglio vivere nella casa di mia madre e non uscire mai più. Voglio ordinare tutto per posta e non avere né amici né parenti, voglio essere io la mia unica famiglia. (p. 254)
Dall’altro la possibilità, rischiosa, di
fidarsi, di lasciare entrare
qualcuno nel proprio rifugio segreto, nel proprio spazio protetto. L’immagine
dell’apertura, reale e metaforica, è
per Liz Moore la chiave di volta del romanzo. Per Arthur la telefonata di
Charlene è ciò che crea uno spiraglio all’interno del bunker-prigione che lui
stesso si è eretto attorno, sia fisicamente che emotivamente. Una volta individuato
un primo varco, la vita inizia a
scorrervi dentro – e ha la forma dei ricordi, ma anche della giovane
assistente domestica Yolanda, che rappresenta per l’uomo il primo contatto
umano in molti anni, e può far male, ma anche portare un’ombra di felicità («Lei aveva aperto qualcosa in me. Sanguinavo»,
p. 282). Kel, invece, novello Telemaco, si mette in movimento alla ricerca di
un padre che l’ha lasciato bambino, e che potrebbe essere ora risposta, o prova
definitiva del suo fallimento. Scoprirà, nel suo vagabondare erratico e a tratti autodistruttivo, qualcosa di nuovo su di sé, un modo
inedito di guardare al proprio futuro.
Il peso di Liz Moore è un romanzo che
parla di solitudini, ma anche di nuovi inizi possibili, e che con grandissima
forza e con soluzioni narrative non scontate riesce a inserire una dimensione
di speranza in esistenze allo sbando.
Carolina Pernigo
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