Ci sono incontri che formano, ma anche che ri-formano la realtà per come l'avevamo vista fino a quel momento, perché aiutano a ridefinire contorni, distanze, colori. Quando l'anziano Michele Prato sale sull'aereo che lo porterà in aria per oltre quattro ore di volo, scopre che il suo vicino di sedile è un ventenne brufoloso, ben poco incline alla chiacchiera. O forse vuole parlare, ma non lo sa ancora e non se lo concede. Come spesso accade, ritrovarsi insieme per un viaggio non esattamente breve porta a sciogliersi: «Lo dico a lei perché non ho nulla da perdere» (p. 40), spiega il ragazzo, che si presenta a Michele come Jonathan.
Se una sessantina sono gli anni che li separano all'anagrafe, un'infanzia traumatica (per ragioni diverse che si scopriranno via via) alla ricerca dell'affetto genitoriale e di una propria identità li accomunano. Ma ad affascinare Jonathan è soprattutto la storia d'amore che ha segnato il Michele adolescente: una sua compagna di scuola, Clio, è l'incarnazione di una completa ed entusiastica adesione alla vita, con una leggerezza che non è mancanza di profondità, ma semplice godere del presente. Michele non è così, è sempre stato alla ricerca del senso delle cose, per quanto capisca col tempo che «il senso delle cose non è nelle cose, è nelle persone» (p. 59).
Per questo - per aver perso Clio, ma anche per scelte di vita successive che non posso anticipare - quel percorso di vita che oggi porta Michele a essere riconosciuto per strada e ad avere agio economico non è visto come un successo. Il suo racconto, intervallato a quello di Jonathan, porta a riflettere su quali siano le priorità nella vita di ognuno, e quasi un refrain ribatte qui e là: «Non conta il quando, mentre esisti. [...] Conta il come, solo il come» (p. 14).
Ma Michele non è solo un affabulatore sapiente, per cui «un racconto sincero [...] lui lo rende fiabesco» (p. 57); è anche un attento ascoltatore, seguendo la sua dedizione agli altri, andando oltre l'apparenza:
Prato non aveva fatto altro nella vita. Ascoltava sempre, ascoltava tutto: i saluti della gente, le frasi e le discussioni, i pianti della madre, il riverbero dei tuoni, il rumore delle macchine, dei giradischi, gli artisti di strada. Una vita di transiti, di moto per luogo, di voci di fondo. (p. 26)
E nel confidarsi senza ritrosie e nell'ascoltare con attenzione gli altri troviamo una delle chiavi di lettura più interessanti di questo breve romanzo dall'afflato filosofico. Michele e Jonathan testimoniano che è possibile e anche arricchente un incontro tra generazioni: i due avrebbero potuto ritirarsi sulle proprie posizioni e in un silenzio ostinato, tacciando l'altro di chissà quali difetti; invece, accade l'esatto opposto. La comunicazione che si instaura tra loro non è nemmeno quella tra maestro e discepolo: entrambi sono uomini in cerca di un senso; Michele ha semplicemente percorso più strada, ma non ha smesso di interrogarsi su quel vuoto che a volte percepisce. Jonathan al contempo ha provato a scriversi sul corpo inviti a resistere, a ribadirsi che è forte, ma non basta un tatuaggio a farlo sentire meno solo e disarmato davanti alla mancanza di attenzioni che riceve dai genitori.
Passato, presente e futuro si avvicendano senza sosta, perché in volo tutto è concesso, tutto è sospeso, e così il romanzo di Matteo Porru, che si regge sul dialogo, è ascolto e confidenza, con la consapevolezza che «la vita fantastica riusciva a essere più divertente e più interessante di tutte quelle che avrebbe mai potuto o voluto scegliere; meno deludente, e molto meno acre» (p. 83).
GMGhioni
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