di Noemi Abe
Bompiani, 2025
€ 11,99 (ebook)
Aveva letto da qualche parte un detto giapponese - auwa wakareno hajime: ogni incontro è già un addio - e le era sembrato che non ci fosse niente di più vero. (p. 35)
Romanzo d'esordio di Noemi Abe, Damé è il racconto amaro di una crescita incerta, un percorso lento e malinconico verso il riconoscimento di un'identità individuale che la protagonista, all'inizio del libro, non ha ancora trovato. Mirì è una giovane donna italogiapponese, che lavora come commessa nella capitale italiana, città in cui ha vissuto fin da piccola. Crescendo deve fare i conti con la difficoltà di barcamenarsi tra due culture tanto diverse, ma soprattutto si trova conoscere per la prima volta quella giapponese, non vivendola direttamente sulla sua pelle ma tramite i viaggi estivi che fa per andare a trovare il padre, che ha lasciato la madre quando lei era ancora molto piccola ed è tornato definitivamente nel Paese del Sol Levante. Quella di Mirì, quindi, è una conoscenza a intermittenza, che mette insieme pezzi e particolari sganciati tra loro e, mentre in Italia tutti danno per scontato che lei sappia la lingua e la cultura nipponica, lei si trova a dover tenere insieme le diverse parti della sua anima, quella occidentale e quella orientale, in una convivenza interiore che cerca di far funzionare.
Anche ora che era diventata una persona normale a tutti gli effetti quella sensazione persisteva: la paura di non essere altro che un animale randagio. (p. 11)
In questo via vai di incertezze e di malesseri esistenziali incontra Rugantino, questo il soprannome che la ragazza gli attribuisce, un avvocato cinquantenne affabulatore e vivace, che vede in Mirì la donna perfetta per lui. Chiassoso e veemente, Rugantino incarna una mascolinità totalmente opposta ai dettami della cultura nipponica e perciò ne è irresistibilmente attratta:
La cosa che più la innervosiva e le piaceva allo stesso tempo di Rugantino era tutto lo spazio che si prendeva. Era un uomo alto, dalle spalle larghe, la sua figura si imponeva su tutta la sala ovunque fosse. Rugantino era tutt'altro che simile a lei, ma in lui Mirì si rispecchiava. Fosse stata un uomo, pensava, così avrebbe voluto essere. A definirlo in poche parole, Rugantino era l'opposto dell'atteggiamento dimesso giapponese. (p. 19)
Questa relazione, inoltre, a Mirì sembra un'ancora per entrare in quello che lei definisce il mondo delle coppie, e cerca di restarci, per ottenere una stabilità, sembra, almeno in quel campo.
Resisti Mirì, si disse, è l'ultima possibilità che ti rimane per entrare nell'invalicabile mondo delle coppie. (p. 72)
Le cose procedono, più che altro perché, pare, Mirì sopporta gli eccessi di Rugantino, passando oltre anche a comportamenti che vanno inequivocabilmente oltre i dettami di rispetto che dovrebbero esserci in una coppia: frasi che la sminuiscono, sensi di colpa instillati, insistenze di vario tipo. Tutto ciò intervallato da momenti di romanticismo da manuale e fiori. Piano piano, però, Mirì si sente sempre più in difficoltà e qualcosa in lei cambia, entrando in una crisi esistenziale parecchio profonda.
Damè di Noemi Abe è sicuramente un esordio interessante, non si può dire il contrario, e la rappresentazione della condizione della protagonista che pare quasi scivolare in un nichilismo di senso e valore è particolarmente riuscita poiché comunica tutta l'angoscia che la ragazza sta vivendo, anche tramite alcune descrizioni particolarmente vivide dei sogni che turbano le sue notti. Anche la scrittura è fluida, scorrevole, e rende particolarmente piacevoli, come ovattati in un tempo che non esiste più, i ricordi delle sue estati in Giappone, con le usanze, le parole e i loro molteplici significati, la consuetudini della società. Forse, il racconto avrebbe giovato di una presa di coscienza più esplicita, da parte di Mirì, dei comportamenti e della situazione venutasi a creare con Rugantino:
Soprattutto, la coppia sembrava significare condivisione dell'intimità. A Rugantino piaceva condividere qualsiasi parte di sé, sia interiore che fisica. [...] Soprattutto del suo corpo, se c'era un antro odoroso e sudato lui voleva che lui lo annusasse, leccasse, succhiasse. Le cavità più turpi. Tra le natiche, le cosce, le dita dei piedi, le ascelle, le orecchie. A volte lo faceva per scherzo, molto più spesso per il piacere che ne traeva. Insisteva e la obbligava. E poi rideva soddisfatto che era riuscito a farle fare qualcosa che a lei non piaceva. Lei non capiva dove fosse la soddisfazione, ma cercava di accontentarlo. E la verità era che le piaceva che lui la comandasse. (p. 126)
In ogni caso, il romanzo riesce a fotografare con intenzione la parabola di vita e di crescita di una giovane donna al confine tra due culture.
Valentina Zinnà
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