Orbital
di Samantha Harvey
NN Editore, febbraio 2025
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 168
€18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Il romanzo copre
ventiquattro ore passate nella ISS insieme ai sei astronauti che la abitano – anzi, poiché
il tempo non è poi così affidabile nel contesto di cui parliamo, sarebbe meglio
dire, come fa Harvey stessa nella scansione in capitoli dell’opera, sedici orbite,
ciascuna delle quali della durata di un’ora e mezza, ciascuna delle quali
accompagnata dalla sua alba e dal suo tramonto. Nel tempo di una giornata – e delle
160 pagine del libro – i sei astronauti vedono una sequenza infinita e inimmaginabile
di notti e di giorni, di orizzonti e di paesi, di paesaggi terrestri e panorami
astrali. Portano avanti le loro attività, le loro rigidissime routine giornaliere, i
loro esperimenti, fanno passeggiate nello spazio; ma subiscono anche un enorme
lutto, si fanno testimoni di un evento climatico estremo, e assistono a un
traguardo scientifico ben più notevole di quello a cui stanno contribuendo loro.
Il piccolo si mescola all’enorme, l’alto si confonde col basso, la dimensione
privata si perde negli enormi deserti e negli immensi cieli fuori dall’oblò, e
noi lettori possiamo solo agganciarci alla navetta e farci trascinare dal suo
movimento circolare, dalla sua caduta libera senza fine.
Insomma, non è un
libro di trama, per quanto Harvey sia abilissima a disseminare il testo di
piccoli dettagli quotidiani, conversazioni, ricordi del passato capaci di rendere
i sei personaggi estremamente tridimensionali e empatici. Più che un racconto
di avventura spaziale, Orbital è un viaggio interiore che esplora il
significato dell’esistenza, alla luce dell’immensa fragilità del nostro
pianeta.
Ciò che davvero avviene
nelle ventiquattro ore del romanzo, infatti, mi è sembrato essere un cambiamento avvenuto
più che altro dentro la voce narrante stessa, e nel modo con cui racconta non
solo la missione dei sei astronauti, ma l’impulso stesso che porta gli esseri
umani a partire alla volta dello spazio. Se l’umanità all’inizio del romanzo sembra
avere una propria eccezionalità, quasi una sacralità, così come il progresso
infinito che i sei astronauti hanno perseguito nei loro lunghi studi e
addestramenti, verso la fine delle sedici orbite arriva una sorta di
disincantamento, o meglio, uno spostamento di focus: dall’amore per l’umanità si
arriva piuttosto all’amare gli umani, i singoli esseri umani che vivono
cercando di fare del loro meglio per fare del bene a sé e a chi li circonda, al
di là delle sciocche idee della politica, o del progresso fine a sé stesso.
“Vogliamo davvero dei palazzi sulla Luna? Io adoro la Luna così com'è, ha detto lei. Si, certo, ha risposto lui, anch'io, ma tutte queste cose sono belle perché la loro bellezza non deriva dal fatto di essere buone o meno, non hai chiesto se il progresso è una buona cosa, e una persona non è bella perché è buona, è bella perché è viva, come un bambino. Viva e curiosa e inquieta. Non importa se è buona. Le persone sono belle perché hanno quella luce negli occhi. Certo, a volte sono distruttive, egoiste, a volte ti feriscono, ma rimangono belle perché sono vive. E il progresso è così, vivo per natura” (p. 65)
Per questo,
forse, leggere Orbital è un po’ come viaggiare insieme alla navicella su
cui si ambienta. Perché tra una rivoluzione e l’altra, ci si ritrova più e più
volte a passare sopra il punto di partenza – magari spazientendosi anche per la
densità del testo; ma una volta finito, ci si rende conto che il punto d’arrivo,
sebbene possa somigliare alla partenza, non lo è affatto. È una lettura meditativa,
che cambia nel profondo, anche se non in superficie – orbitandoci sopra con
delicatezza.
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