Scoprii allora come certe immagini si potessero vedere veramente soltanto dopo averle viste, in un secondo tempo, quando, sprofondate nel pozzo scuro di me stesso, riaffioravano in superficie, richiamate da un qualche desiderio. (p. 83)
Quel pozzo scuro, l’inconscio più profondo dove le esperienze cadendo come monetine dalla fessura degli occhi si accatastano e si trasformano, è il gorgoglio di un liquido denso, pauroso, soffocante, psicotico. Quanto è facile immedesimarsi in tale stato, se non fosse che quel secondo tempo della vita appartiene a un bambino iscritto alle scuole elementari.
Giuseppe Zucco si riconferma, dopo Il cuore è un cane senza nome (Minumum Fax, 2017) e I poteri forti (NN Editore, 2021) lo scrittore del terrifĭcus.
Il signore delle acque sbatacchia lettrici e lettori in un luogo indefinito che è sulla soglia della fine: l’acqua, che non riesce più a svincolarsi verticalmente in pioggia, si accumula orizzontalmente sulle teste di chi la guarda con i nasi rivolti al cielo, e si trasforma in una creatura immane che come lava infuocata che borbotta boati simili a un cielomoto raggiunge centimetro dopo centimetro le vite ordinarie dei malcapitati. Tuttavia, c’è questa creatura con guance e mento ancora vestiti di peluria che narra, al passato imperfetto e remoto come fosse per sempre rinchiuso in una bolla d’aria del presente, le conseguenze della sindrome dell’occhio secco di cui soffre il cielo.
Il protagonista di Zucco è un bambino inquietato dai grandi, da quelli delle medie che lo bullizzano, dalle carezze viscide di mamma e papà che lo fanno sentire un dio in terra, e «che questi baci e queste carezze, oltre a essere una cura, erano il sintomo di una malattia [...] Io ero attrezzato per sopportare gli schiaffi più ingiusti, non le abrasioni procurate da queste dolcissime carezze» (p. 32). L’acqua bloccata nel cielo scandisce, con il suo blu, la vita di una famiglia che si mantiene a galla come un cadavere enfiato, che tenta di vivere momenti di affetto famigliare come fossero copioni scritti per andare in scena sul palcoscenico di un teatro fatiscente, che odora di putrefazione.
Ciò che sconvolge del romanzo di Giuseppe Zucco non è il mare capovolto che minaccia morte, ma l’ordinarietà claustrofobica degli esseri umani che vivono in un luogo indefinito, perciò che vivono in quei luoghi che conosciamo meglio.
L’imputridimento delle affettuosità rese carne, sudore, ferite sanguinanti e gemiti, spinge il piccolo protagonista a rendersi parte di un ordine nuovo, mettendo gambe e piedi in corsa altrove, lontano da casa e da coloro che hanno smesso di badare a lui. Ed ecco che il fanciullo imberbe con il suo piccolo fagotto di conoscenza accatasta dai moltissimi documentari visti con la madre, diviene un pícaro dell’apocalisse, diviene la giustificazione del caso. Ancora una volta è il lettore a essere sbatacchiato dalla corsa folle di un bambino alla sola ricerca di un bacio e di una carezza, ma costretto a lanciare un pugno di monetine nel suo pozzo scuro: incroci, semafori lampeggianti, risse sanguinolente, corpi aggrovigliati, disperazione e angoscia, «Di colpo urlai come urlava una vecchia, tutta nuda, le carni grosse, i seni molli, i capelli di un bianco svolazzante, che picchiando i pugni al petto rotolò per terra, allargando il nero cratere di una bocca senza denti» (p. 80).
Giuseppe Zucco tiene i lettori e le lettrici col fiato affannoso, mentre godono di una prosa piena, evocativa, dettagliata di cose non ancora definite, di sensazioni, di emozioni, di vita e di esperienze, che si depositano nel loro inconscio per osmosi, e che trovano spazio vitale nei loro incubi peggiori come «cadaveri che combattevano con altri cadaveri per diventare cadaveri» (p. 149).
Zucco sa di cosa scrive; egli è pienamente lucido e fedele alle immagini che decide di donare alla pagina, immagini di una bellezza simbolista perciò a tratti terrificanti, malinconiche e viscidamente miserabili: «Le lunghe lacrime di mio padre che come due lacci gli facevano un fiocco lucido sotto il mento» (p. 12).
Il signore delle acque è l’opposizione della vita alla morte; è l’assurdo aggrovigliato alla banalità dell’ordinario; è l’amore che ammicca alla violenza primitiva; è l’angoscia della sopravvivenza; è l’orizzontalità delle acque e della terra che si verticalizzano come in un’antica tragedia.
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