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Alla riscoperta di un romanzo-mondo. I cinquant'anni di "Horcynus Orca" di Stefano D'Arrigo

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Horcynus Orca
di Stefano D'Arrigo
BUR, febbraio 2025

pp. 1224
€ 18,00 (cartaceo)


Cinquant'anni fa, nel febbraio del 1975, dopo una lunga gestazione durata quattordici anni, vedeva la luce uno dei romanzi più lunghi e complessi della letteratura italiana del ‘900: Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Un romanzo-mondo, sterminato, in cui si intrecciano ben cinquantasei storie, secondo il critico letterario Walter Pedullà. Proprio di quest’ultimo è l’introduzione della nuova edizione BUR, pubblicata per celebrare il cinquantesimo anniversario di questo capolavoro, per cui negli anni si sono usate illustri similitudini (l’Ulysses di Joyce e Moby Dick di Melville). A cinquant'anni anni dalla prima edizione, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, in collaborazione con BUR – Rizzoli e Taobuk – Taormina International Book Festival, presentano "Horcynus Orca 50", un lungo palinsesto di appuntamenti e iniziative. Una di queste è proprio l’edizione curata dalla BUR, arricchita da fotografie e documenti inediti, uno scritto di Giorgio Vasta e la postfazione di Siriana Sgavicchia. Questa edizione è anche impreziosita da una lunga bibliografia, che consente al lettore di comprendere la portata dell’innovazione linguistica e la ricchezza dell’immaginario di questa opera-mondo.

Non è affatto semplice decidere da quale punto partire per parlare di un romanzo di tal genere. Ho scelto quindi di cominciare dalla lingua. Sebbene Pier Paolo Pasolini avesse considerato D’Arrigo un neosperimentalista, l’autore siciliano non amò mai questa definizione, ritenendosi, sì, un innovatore, ma un «classico». Maria Corti, nel 1976 non esitò a definire l’opera di D’Arrigo non tanto un romanzo quanto un poema epico in prosa, un “moderno cantare”. Primo Levi fu affascinato dallo stile “spagnolesco” ed esuberante di un romanzo che, a suo avviso, non poteva che essere scritto così, poiché è “arte e non artificio”. La lingua di Horcynus Orca è realmente abissale: neologismi e ripetizioni, allitterazioni e assonanze, elementi dialettali che però vanno al di là di qualsiasi intenzione mimetica. 
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina 'Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill'e cariddi. (p. 57)

Questo l’incipit del romanzo che Giorgio Vasta, nel saggio introduttivo, chiama «una fata morgana del linguaggio». Ed è proprio la questione linguistica e stilistica che terrà lo scrittore avvinghiato in un rapporto che è “destino” al suo romanzo per quattordici anni, perché la trama è abbastanza semplice e facilmente riassumibile (quanto meno quella principale): all’indomani dell’8 settembre del ‘43 il marinaio 'Ndrja Cambria torna a casa (piccolo paese sullo Stretto di Messina) e nel suo viaggio di ritorno  percorre le coste devastate dalla guerra della Calabria. Attraverserà lo Stretto grazie alla figura ammaliante di una “femminota”, dall’evocativo nome di  Ciccina Circé. Una volta approdato in Sicilia, troverà un mondo completamente diverso da quello lasciato, un mondo degradato e terrorizzato dall’apparizione dell'Horcynus Orca, un mostro marino terrificante, con una piaga sul dorso che procura fetore e morte. L’Horcynus Orca è la Morte.

Il bel saggio conclusivo di Siriana Sgavicchia aiuta il lettore a dipanare alcune simbologie e alcuni lemmi del romanzo, che a me, messinese come l'autore, appaiono più facilmente comprensibili e che soprattutto sono carne e sangue dell'immaginario dello Stretto. Non a caso, al pari di un regista, D'Arrigo tornò a Messina per fare sopralluoghi, e a Punta Faro, scattò delle foto a pescatori, donne, anziani, carcasse di orche. Queste foto, al pari delle foto dei tantissimi fogli che D'Arrigo usava appendere per la casa con mollette da bucato, si trovano nella bella parte iconografica di questa preziosa edizione.

Dicevamo l'immaginario dello Stretto, ma l'immaginario darrighiano va ben oltre attingendo ad archetipi omerici  e biblici. La Morte è la protagonista indiscussa, in tutte le sue variante (storiche, naturali, mitologiche) del romanzo. Il secondo conflitto mondiale ha sparso per la Terra una scia di morte, di assurdo dolore, che ha smembrato tutto.

Qua è così pieno di morti che non ve lo potete immaginare nemmeno, è tutto un grande viavai di nudità mascoline sfigurate. Ci furono miserande roncisvalli di marinai italiani come voi, nei mare qui dintorno e sti nomi di strage, certo v'arrivarono pure a voi all'orecchio: a noi, fatevi un conto, ci arrivava perfino l'eco del cannoneggiare e lo sconquasso dei siluramenti che ci mandava il cielo e il mare di vampa, di qua dietro alla Calabria, di qua in basso di Canale e in specie, di Malta. Si partirono allora e ancora navigano sti meschinelli che vi dico, sti naviganti in cerca di 'maro approdo. Chi l'ammazzò, forse non se ne ricorda più, ma essi ancora navigano, girano, esposti a sole e luna, si rivoltano nelle onde, (p. 358)

Quel mare che «se non è Jonio, è Tirreno» incamera i morti, non li fa andare né avanti né indietro. Nonostante le parole della sua "Circe", 'Ndrja riesce a tornare alla sua Itaca, la sua Odissea sembra aver fine, ma non è così. Non c'è più una casa, l'inquietudine è ciò che crea spaesamento in qualsiasi lido. L'inquietudine è legata alla riapparizione del mostro marino più temuto, l' Orcaferone, che terrorizza tutte le fere che nuotano nello stretto (le fere sono i delfini). Le fere, nel romanzo, hanno un nome e una storia, conosciamo il loro passato e i loro viaggi e questo fa sì che D'Arrigo abbia tenuto fede a quanto si ripeteva durante la scrittura: "Guardati da Verga". Se inizialmente sembra di assistere a un neorealismo, sebbene caratterizzato da un espressivismo tra il barocco e lo sperimentale, andando avanti con la lettura la trama stupisce, coniugando senza soluzione di continuità realismo e narrazione visionaria e onirica, racconto soggettivo e corale, lingua antica e moderna, aulica e dialettale. Per farla breve, Horcynus Orca fa quanto dovrebbe fare un'opera letteraria: creare un mondo e un linguaggio che prima non esisteva.

Quando le prime duecento pagine di questo romanzo incandescente giunsero nelle mani di Elio Vittorini, lo incantarono a tal punto che le pubblicò sul «Menabò», anche senza l'autorizzazione di D'Arrigo, che la prese malissimo. Era il 1960 e da quel momento intorno a questo romanzo si creò un mito (un mito del mito, potremmo dire). La Mondadori comprò i diritti e stipendiò D'Arrigo per ben quattordici anni, aspettando pazientemente che lui decidesse di porre fine alla stesura di un romanzo che più si andava avanti, più appariva interminabile, inaggirabile come tutti i segni e come la fantasia. 

Quando il libro venne finalmente pubblicato, sorprendentemente la prima tiratura di cinquantamila copie andò esaurita in due mesi. Un caso editoriale che poi pian piano lasciò il posto a una sorta di timore reverenziale per un romanzo considerato ostico e illeggibile. La sua lingua, inoltre, ha reso arduo il compito dei traduttori, tanto che la prima edizione in lingua straniera arrivò nel 2017, in Germania, nella prestigiosa edizione Fischer.

Le fere si accaniscono in branco sull'Horcynus Orca, forse immortale, forse no, mettendo in scena una crudeltà primordiale e metafisica, che coinvolge ogni ambito del vivente.

I giorni della fera era il primo titolo di quest'opera monumentale e questi giorni ferini sembrano terribilmente attuali, la carcassa del Mostro galleggia ancora, impestando l'aria e il mare, e gli uomini si domandano se la Morte sia davvero immortale e invincibile. 

Deborah Donato