Che cosa si nasconde nelle pieghe di un matrimonio? Con L’arte del matrimonio – The Anniversary il titolo originale –, appena pubblicato da Marsilio con la brillante traduzione di Isabella Zani, Stephanie Bishop porta il lettore nella discrepanza tra quello che appare e le ombre di un matrimonio, la costruzione delle nostre verità, la manipolazione del ricordo. Un romanzo maestoso di cui non ho sentito parlare abbastanza dalla critica nostrana e dai lettori e che invece si colloca tra le letture più interessanti di questa – quasi – metà dell’anno: romanzo, thriller psicologico, gioco meta letterario, L’arte del matrimonio è tanto turning page book quanto lucida riflessione su tematiche complesse, denso di spunti, attraversato da tensione crescente, ambiguità. Ambiguità che si lega perfettamente alla narrazione in prima persona, a rimarcare l’inaffidabilità di quello che stiamo leggendo, il punto di vista parziale, soggettivo.
Non c’è mai un’unica versione. Persino in quella stanza non potevo sapere, con esattezza, in che modo le mie parole venivano riconfigurate mentre passavano da una lingua all’altra. Non potevo dirgli che fin troppo spesso dubito della mia versione dei fatti. (p. 42)
La versione dei fatti è quella di Lucy, all’indomani della scomparsa del marito a seguito di un incidente durante la crociera per il loro anniversario. Per tutto il romanzo siamo dentro la sua testa, nei suoi pensieri che si compiono sulla pagina, in una concatenazione libera e ammaliante, la narrazione costruita su apparenti digressioni, salti temporali, ricordi, verità e vuoti. Ma ci fidiamo del racconto di Lucy quando lei stessa dubita della propria versione delle cose e mentre altre ombre emergono dal passato? Mentre fuori scena si svolge l’indagine sull’incidente del marito Patrick, Lucy conduce il lettore nella sua verità, oltre le apparenze di un matrimonio e le dinamiche della coppia.
Aveva vent’anni e rotti più di me. Quando ci eravamo messi insieme io ne avevo appena compiuti ventiquattro; lui ne aveva quarantacinque, insegnava cinema e aspettava la sua grande occasione come regista. Ai tempi ero una sua studentessa, e lui si era separato da poco. Aveva lasciato la moglie che era incinta di Joshua, benché allora non lo sapessi. (p. 23)
La grande occasione di Patrick alla fine era arrivata ma oggi, al momento della crociera per l’anniversario di matrimonio, la sua stella è decisamente meno brillante. L’ascesa di Lucy come scrittrice invece è inarrestabile ed è di poche settimane prima la notizia, ancora segreta, che le sarà assegnato un premio importante. È proprio qui il centro nevralgico del romanzo, la materia incandescente, più interessante dello svelamento del mistero: il gioco metaletterario – quello che invece secondo il New York Times rende il romanzo «un po’ sbilanciato e insoddisfacente» - , che spinge il lettore a riflettere su ambizione, patriarcato, lavoro culturale, distorsione, fama. Entrambi sono spinti da potenti ambizioni, Patrick come regista, Lucy come scrittrice e fin da principio l’uno ha influenzato il lavoro dell’altra e viceversa, annullando i confini tra personale e professionale e confondendosi tra le pieghe delle proprie creazioni. Un rapporto che pare fondarsi sulla fiducia e sul sostegno reciproci, votati alla propria arte. Quella di Patrick, caotico visionario sempre più assorbito dagli impegni, considerato un genio ribelle, quella di Lucy, che si nutre della propria esperienza e dove il confine tra finzione e realtà perde via via i contorni.
Le mie ambizioni artistiche erano sovrane. Lo erano sempre state. Lo erano ancora, lo sono. E lui lo sapeva. Avevo creduto fosse questo che amava in me: ma quanta ambizione può rivendicare una donna prima di esserne rovinata? Virilizzata, giudicata in errore. Prima che la sua ambizione venga contestata e usata contro di lei. (p. 232)
Stephanie Bishop scompone il desiderio, l’ambizione artistica, le insidie delle relazioni e restituisce al lettore una lucida e spietata analisi di un mondo dove le aspirazioni femminili si scontrano con le aspettative sociali, con le contraddizioni di una società che ancora non perdona a una donna il suo successo, con i diversi standard di giudizio del talento. È lo svelamento dell’ipocrisia che domina il sistema culturale osservato dal suo interno e dove il discorso metaletterario si fa ancora più potente, scivolando dal personaggio alla sua creatrice, dentro e fuori dal romanzo. Ci è “concesso” di scrivere, ma non di essere giudicate al pari degli uomini. Come per la short story le considerazioni critiche si fondano quasi sempre in rapporto al romanzo genere egemone, così la scrittura delle donne è quasi sempre vincolata al rapporto con quella maschile, all’autorevolezza che non è mai elargita ma conquistata un pezzo alla volta e spesso a caro prezzo, facendo i conti con tutto ciò che resta indietro, con tutto ciò che va sacrificato e che, presto o tardi, ci verrà rinfacciato.
Ancora una volta la vittoria della donna è marcata da una definizione in negativo, dall’idea di un’assenza. La sua prosa non cede al ricatto, al sentimento, al compromesso, anziché venire etichettata per com’è: tenace, realistica, coraggiosa, ficcante, vigorosa, robusta, scottante, audace eccetera, potrei continuare a lungo. Tutti i valori positivi riservati agli uomini. Noi, al contrario, ancora una volta siamo definite contro le aspettative del nostro sesso, per la presunta mancanza. (p. 111)
Mi sorprende che CJ Hauser, autrice di quel pezzo del New York Times che citavo in apertura, trovi questi passaggi insoddisfacenti, che sono invece a mio avviso il centro nevralgico della storia e l’opportunità per riflettere sulle dinamiche distorte del mondo culturale, sulle profonde influenze del patriarcato. Considerazioni che non restano ancorate all’ambiente rappresentato ma si applicano a territori ulteriori, mostrando le crepe di un sistema tutto fondato su doppi standard di giudizio. Standard mutevoli a seconda delle convenienze, della manipolazione che facciamo delle parole e dei fatti, degli interessi e che investono la protagonista e l’immagine che ne emerge a seguito della tragedia. Attraverso la vicenda di Lucy facciamo i conti con la malleabilità delle parole, la costruzione o decostruzione di una certa immagine a seconda del punto da cui osserviamo le cose: è una riflessione piuttosto interessante sul ruolo delle narrazioni, sul potere dei media, sulla responsabilità delle parole e sulla funzione della letteratura. Ecco, la letteratura, ancora: L’arte del matrimonio tramite la scrittura di Lucy è l’occasione per ragionare anche su dove finisce la finzione e si innesca il reale e sulle conseguenze di queste scelte, interrogandosi ancora sullo scandaglio ossessivo alla ricerca del dato biografico, sul particolare personale, sulla realtà che nutre la finzione ma anche, al contrario, sull’influenza della finzione letteraria su quel che è fuori dalla pagina. La storia di Bishop si muove tra due poli fondamentali, il matrimonio con le sue ombre e il mondo culturale, che ritrae con lucidità, «con sguardo freddo, razionale, distaccato, lo sguardo che storicamente si pensa appartenga al maschio» (p. 110).
A pesare purtroppo in un romanzo che poteva raggiungere vette letterarie notevoli, è il finale: artificioso, troppo risolto, con una serie di scelte e convenzioni che rompono un equilibrio fino a quel punto perfetto di tensione e ambiguità. Verrebbe da dire di fermarsi un attimo prima con la lettura per non rovinare l’effetto complessivo di una storia dalla puntuale tenuta narrativa, la stratificazione di spunti e chiavi di lettura, la tecnica esemplare. Un difetto imperdonabile per un racconto che posso sforzarmi invece di perdonare a un romanzo che davvero meritava molta più attenzione, di editing e di critica e pubblico, ma che invece si è un po’ perso nel marasma delle uscite editoriali, tra fascette altisonanti, titoli che tornano continuamente tra social e nuovi podcast, importanti campagne di comunicazione. Dinamiche di un sistema editoriale che consuma a una velocità impressionante. Ma questa è un’altra storia.
Debora Lambruschini
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