L’attenta selezione editoriale del catalogo Terrarossa edizioni ha da poco incluso un volume breve ma essenziale per la collana Sperimentali: Fare il possibile, la raccolta di racconti di Claudio Bagnasco. Racconti di una manciata di pagine, frammenti, «schegge di esistenza» in ordine cronologico disordinato e con una voce narrante unica e specifica. Una raccolta notevole che segna un momento cruciale nella produzione letteraria di Bagnasco, la compiutezza della propria voce autoriale. Ho colto l’occasione per fare due chiacchiere con l’autore e parlare di “genovesità”, di scrittura, discrepanze.
Partiamo dalla struttura di questa raccolta e dagli aspetti più formali: un narratore unico, momenti sparsi della sua esistenza, lo scandire dei giorni, i diversi registri che attraversano la raccolta. Perché queste scelte, qual è l’obiettivo?
Anzitutto bentrovata, Debora, e grazie dell’ospitalità. Potrei dirti così: la risposta si trova in parte nella narrazione che si intitola “5 febbraio 2021”, dove il protagonista si domanda come facciano, i romanzieri, a rinvenire nella realtà tutti quei rapporti di causa ed effetto. Sono persuaso che la vita, bagliore inspiegabile senza un prima né un dopo, sfugga al nostro comando, e per quanto la si cerchi di organizzare, guardata retrospettivamente non è che una giustapposizione di fatti, che di solito ci sorprendono perché si dimostrano più o meno importanti di ciò che si presumeva. Da ciò derivano due mie scelte. La prima è quella di scrivere testi brevi, compiuti e se vogliamo tutti contenenti una quota di mistero, come sono appunto i lampi dell’esistenza. Poi c’è l’uso insistito della virgola, in “Fare il possibile”: senza dubbio per una questione di ritmo (e sull’importanza del ritmo dico qualcosa, nel libro), ma anche perché la virgola, regina della paratassi, tutto parifica, nega gerarchie, disconosce progettualità. Dimostra, secondo me, la folle e meravigliosa incomprensibilità dello stare al mondo.
Stando ancora un attimo sulla struttura: definirei “Fare il possibile” uno short story cycle, sei d’accordo? Racconti che hanno la loro autonomia e compiutezza, ma che nell’insieme svelano pienamente il loro potenziale, in un’occorrenza che può essere di personaggi, di voce narrante, di ambientazione, di tematica… ma senza mai appunto perdere l’identità di racconti.Fare il possibile
di Claudio Bagnasco
Terrarossa, aprile 2025
pp. 98
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Sono uno di quei dinosauri che non utilizzano l’inglese quando non strettamente necessario, per cui mi trovo a non concordare con la tua proposta identificativa di “Fare il possibile”. Ma, cercando di riabilitarmi prima di essere messo alla porta, reputo perfetta la seconda parte della tua domanda: “Fare il possibile” è una raccolta di testi autonomi che tuttavia, presi nella loro interezza, compongono un senso ulteriore. Come la vita: insieme di accadimenti che sbocciano e scompaiono senza badare alle umane esigenze, e che però – uno dopo l’altro – fanno le nostre esistenze, fanno… il possibile.
Come nasce la tua scrittura? Come arrivi a questa forma, al frammento, a queste «schegge di esistenza»? come hai trovato la tua voce?
Questa domanda è cruciale, sai? Perché solo in quest’opera ho finalmente trovato la mia voce, che è l’unica cosa a cui noi dovremmo badare. Noi scrittori? Macché: noi esseri umani. A ciascuno di noi tocca un posticino infinitesimale nella storia del mondo, eppure quel posticino è nostro e di nessun altro, per cui abbiamo il dovere di onorarlo. Ecco quindi che trovare la voce non significa salire su un pulpito e declamare, soffocando le voci altrui. Ma essere una delle infinite voci che si accordano al ritmo del mondo. Per soggiungere una nota più concreta, la mia voce deve molto alla lettura della poesia, e ad alcuni grandi scrittori italiani del Novecento particolarmente attenti al ritmo (riecco il ritmo, e tre). Penso ad esempio agli amati Anna Maria Ortese e Paolo Volponi: non a caso, Volponi trascrive in alcuni romanzi versi di sue poesie, per così dire “prosificandoli”.
Sei autore di racconti ma anche di prose differenti: è la storia a dirti di volta in volta di quale respiro avrà bisogno?
Mi ricollego alla risposta precedente: no, è stato un percorso. Un percorso di progressiva rarefazione: maturità è, credo, imparare a rinunciare, a lasciare ai bordi del percorso, mirare all’essenziale. Avere una voce è, anche, la dolorosa consapevolezza di non poter essere nessuna delle altre voci possibili, disponibili.
Sono racconti tesi tra ironia e dramma, molto onesti. Di dualismi è attraversata tutta la raccolta, a partire dalle ambivalenze già del titolo, “Fare il possibile”: ti va di parlarcene, di fornire al lettore una chiave d’accesso?
“Fare il possibile”, dicevo in un’altra intervista, se inteso superficialmente può avere una sfumatura autoassolutoria, significando “Fare quel che si può”. Ma a riflettere un po’ di più sulla frase, ecco che la si può leggere anche come “Costruire il possibile”, che è quanto fanno gli umani giorno dopo giorno, a prescindere dal loro grado di partecipazione emotiva alla vita. E, se vogliamo, anche il primo dei due significati può essere inteso con accezione tutta positiva: fare quel che si può significa non poter fare nulla di più, d’accordo, ma anche non dover fare nulla di meno. Torna il discorso, appena fatto, del posticino da onorare.
Come te sono ligure e ho ritrovato sulle pagine molta “genovesità”, ben oltre i riferimenti diretti ai luoghi. Come si scrive la genovesità dalla distanza, osservandola dal luogo che hai scelto come casa, la Sardegna?
Se l’intervista fosse stata fatta di persona, per questa domanda ti avrei abbracciata. Perché dice una cosa verissima: in “Fare il possibile” non c’è tanto Genova (non sono un paesaggista) quanto la genovesità, quel mostrarsi scabri che spesso nasconde umanità, a volte acume e forse un eccesso di orgoglio, il tutto riassumibile in una curiosa parola in dialetto genovese amata da Eugenio Montale, stundaio. Che Montale così definisce: “Atteggiamento tipico di orgoglio e timidezza, misto a diffidenza. La pratica quotidiana del mugugno, un certo complesso di inferiorità nei confronti dell’altro, bilanciato dal senso di superiorità morale.” Non so dirti come si scriva la genovesità dalla distanza, ma so per certo di essere rimasto profondamente genovese. La Sardegna, va detto, un po’ fagocita: per cui, o si aderisce alla sardità o – forse per reazione alla fortissima identità isolana – si resta cocciutamente ancorati al proprio spirito originario.
Uno degli spunti che ho trovato particolarmente interessante è la discrepanza tra la vita che si immaginava da giovani e ciò che è diventata l’età adulta; un solco che mi ha richiamato alla mente anche un altro grande scrittore contemporaneo di racconti, Paolo Zardi, e, in forma diversa, Roberto Camurri.
Mi fa piacere il paragone con Zardi. Tra noi c’è simpatia e stima (spero) reciproche: Paolo secoli fa ha ospitato un mio racconto nel suo blog e io ho recensito diverse sue opere. Peraltro, credo che Zardi dia il suo meglio nella misura breve. Non conosco se non di nome Camurri ma, come dicono gli intellettuali, Non si può leggere tutto. Smettendola di divagare: sono prossimo ai cinquant’anni, e mi rendo conto che “Fare il possibile” è anche un bilancio esistenziale. Non è facile, da adulti, accettare di non essere del tutto ciò che ci si auspicava da giovani. Ma l’adultità mette alla prova, si diceva, proprio perché impone di rinunciare sempre di più, di perdere sempre di più. Però è anche molto bello, ha una sua dolcezza e persino una sua giustezza, l’idea di ridursi progressivamente all’osso. Infatti ho in antipatia, non posso farci niente, coloro che con l’andare degli anni ingrassano a dismisura. Bisogna arrivare in fondo più magri che si può, perché nessun equipaggiamento sarà utile, dopo.
Per molti scrittori di racconti un’attività che in qualche modo racchiude il senso di quello che fanno e come lo fanno è stata la pesca. Per te potrebbe essere la corsa?
Proprio il contrario. Mi spiego: sono un podista amatore, e per qualche anno ho preparato e corso maratone. Siccome credo nella qualità e non nella quantità, e siccome sia la corsa sulle lunghe distanze che la scrittura sono (o dovrebbero essere) attività che richiedono un impegno assoluto, a posteriori mi sono accorto che, negli anni in cui ho corso intensamente, non ho praticamente scritto un rigo di narrativa, ho portato avanti solo la scrittura critica.
L’ordine con cui i racconti sono inseriti: non un ordine cronologico, non un accostamento tematico in senso stretto. A cosa è dovuta la scelta di presentarli in questa precisa successione?
Il disordine cronologico è un tentativo estremo di dimostrare la casualità degli accadimenti. È di più, quasi una provocazione. È come dire al lettore: Vedi, una biografia è anche leggibile così, mescolando la cronologia degli eventi. Non esiste alcun progresso, non è possibile alcuna pianificazione. Non te la prendere, lettore mio, e vivi la tua vita. A ciò si aggiunge un senso, di nuovo, ritmico: con Giovanni Turi, il mio eccellente editore, abbiamo anche vellicato l’idea di riordinare cronologicamente le storie, ma si sarebbe un po’ persa l’alternanza di atmosfere che qui, mi auguro, è ben calibrata. Però a Turi va il merito di aver aggiunto a ogni brano un titolo, rappresentato da una data con giorno, mese e anno: una minima bussola per non far sentire il lettore troppo disorientato. In fondo, a ben pensarci, la letteratura è ben questo: offrire e contemporaneamente levare certezze ai lettori.
Intervista a cura di Debora Lambruschini.
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