Leggere George Saunders mi ricorda che la scrittura è, prima di tutto, un certo modo di stare nel mondo: è lo sguardo con cui si osservano le cose, anche le più banali e quotidiane, quelle che per la maggior parte delle persone non sono niente, ma che nelle mani di chi pratica la scrittura diventano altro, svelano i loro misteri, si fanno malleabili e dense di significato. È la capacità di stare qui, in questo nostro mondo, e vederlo davvero, sentirlo, creando sulla pagina qualcosa che è il mondo e non lo è, che aderisce perfettamente al reale o ne sfuma i contorni, ogni volta diverso, ogni volta nuovo, anche quando hai imparato a riconoscere la voce dell’autore, la sua postura sulle cose. Saunders usa spesso il filtro dell’ironia per raccontare le contraddizioni del contemporaneo e, soprattutto, la società americana, tra consumismo, precarietà delle relazioni, violenza, capitalismo feroce. Lo fa, ogni volta, intrecciando abilmente storia e modo di raccontarla, dove l’una dipende dall’altra: sperimenta, crea mondi con un linguaggio che si muove su registri diversi, sceglie punti di vista spesso non convenzionali; prende la realtà che crediamo di riconoscere e la fa a pezzi, ne mette in mostra le contraddizioni e la racconta spostandosi dal realismo più tradizionale alla distopia, al fantastico. È quello che accade anche nell’ultima raccolta appena pubblicata da Feltrinelli, Giorno della liberazione: nove racconti – tradotti come sempre da Cristiana Mennella – che, ognuno con le sue peculiarità, riflettono intorno al concetto di “liberazione”.
Il racconto eponimo è una distopia degna dei migliori esempi del genere e la narrazione in prima persona plurale, focalizzata sul punto di vista interno, contribuisce a rendere la storia particolarmente disturbante: in una società di cui riconosciamo perfettamente i contorni, i ricchi si intrattengono con quelli che al principio della storia siamo portati a pensare siano umanoidi, perché la realtà delle cose è molto più inquietante. Attraverso la distopia Saunders ancora una volta riflette sulla condizione umana e una società in cui la violenza e l’oppressione paiono essere profondamente radicate; “Giorno della liberazione” è l’amara riflessione, dunque, sul potere del denaro, su istinto e violenza, ma anche sul concetto di identità, ricordo, umanità.
“Una manica di vecchi ricchi viene a sentire un vecchio ricco raccontare la morte gloriosa di una manica di giovani oppressori imperialisti”, dice Mike il figlio adulto. “Inscenata da un gruppo di persone che, a loro insaputa, sono oppresse dal vecchio e dai suoi amici ricchi del pubblico, che lui insiste ad annoiare a morte ogni tot settimane e che lo lasciano fare in nome dell’amicizia rendendosi quindi complici di tutta questa schifosa sagra dell’oppressione”. (“Giorno di liberazione”, p. 36)
Una storia amarissima, collocata in un futuro incerto e attraversata da un’inquietudine sottile, che non fa sconti, ma anche un interessante esperimento narrativo che permette di ragionare a più livelli sulle possibilità del linguaggio, in un gioco metaletterario che si svela a diversi gradi. La parola genera la storia e da sempre Saunders parte da qui per inventare i suoi racconti, dando forma di volta in volta a un universo narrativo specifico. È il nostro mondo, le sue storture portate all’estremo, il riperpetrarsi della violenza; perché, d’altra parte, «la pace […] non è l’intenzione generale dell’umanità» (p. 45).
Il mezzo della distopia per raccontare le storture della società americana aderisce perfettamente anche a un’altra storia particolarmente interessante di questa raccolta, “Lettera d’amore”, che si colloca in un futuro prossimo della decade attuale. È la lettera di un nonno in risposta alla richiesta di consiglio del nipote, attraverso cui Saunders tratteggia una società – quella americana – precipitata in un sistema di controllo, detenzione, pericolo. Non abbiamo idea di cosa sia accaduto, di quali sistemi di controllo e repressione il governo federale abbia messo in atto, ma si avverte lungo tutta la narrazione il senso di pericolo e lo straniamento di trovarsi immersi in una storia dai contorni tanto riconoscibili. «Sono tempi strani» e nessuno sa spiegare davvero come sia stato possibile arrivare a quel punto, i diritti e la democrazia progressivamente ridotti e cancellati, nell’apatia generale. Distratti da altre urgenze, assomiglia così tanto ai tempi attuali da insinuare un senso di angoscia che alla fine della lettura non dovremmo dimenticare. Saunders sembra avvertirci proprio di questo pericolo, della distrazione con cui stiamo accettando le cose, erroneamente convinti che le democrazie non possano essere messe in dubbio, non qui, non nelle nostre società occidentali.
Non sembrava (e per favore distruggi questa lettera quando l’avrai letta) che un pagliaccio simile potesse sabotare una cosa tanto nobile, collaudata e all’apparenza solida da averci letteralmente accompagnato ogni giorno della nostra vita. In altre parole, avevamo dato per scontato un dono profondo. Non sapevamo che quel dono era una manna, una chimera, una splendida congiuntura tra unanimità e comprensione reciproca. (“Lettera d’amore”, p. 104)
Messa da parte la distopia, il mondo evocato da Saunders in queste nove storie appare comunque sottilmente inquietante anche nei racconti più aderenti al realismo tradizionale, a svelare la violenza che domina il quotidiano dietro la facciata di perbenismo e convenzioni, la precarietà delle relazioni, le brutali conseguenze del consumismo, la feroce lotta per il capitale. Che siano le ansie di una madre e il desiderio sempre più feroce di riparare al torto subito dal figlio, o la faida tra colleghi d’ufficio e la lotta di potere che si scatena, gli antichi rancori tra vicine di casa e la manipolazione del ricordo, il giudizio delle persone sulle scelte private del singolo, in tutte queste storie lo sguardo di Saunders è sempre comunque puntato sulla condizione umana, dolente e spesso sconfitta dalla società che ha contribuito a creare. Saunders scava nelle nostre paure, nella nostra indifferenza, alla ricerca di una liberazione impossibile perché troppo invischiati nelle dinamiche del mondo in cui siamo immersi. La dimensione del racconto appare quella più congeniale all’autore, per la particolare postura che richiede. È la fotografia di un particolare su cui si posa lo sguardo, un frammento, un «momento di verità» di straordinaria «intensità emozionale».
L’ironia si mescola alla sperimentazione formale e tematica nella costruzione di nove storie perfettamente inserite nella produzione letteraria dell’autore, rimarcando una poetica ben delineata tanto nella narrativa breve quanto nelle prove più lunghe, come il celebrato Lincoln nel Bardo, l’unico romanzo finora pubblicato e insignito del Man Booker Prize, e che, nonostante la forma scelta, pare in qualche modo fatto degli stessi frammenti di cui si compongono le sue storie brevi. E alle storie, in ogni loro forma, Saunders è profondamente legato, tanto come scrittore quanto come lettore: ne è la prova anche il prezioso volume Un bagno nello stagno sotto la pioggia uscito qualche anno fa per Feltrinelli, e che si inserisce nel solco di una ricca tradizione tra cui compaiono, tra gli altri, testi come Nel territorio del diavolo di Flannery O’Connor, On writing di Stephen King, Il mestiere di scrivere di Raymond Carver, Scompartimento per lettori e taciturni di Grazia Cherchi. Quella di Saunders è una dichiarazione d’amore per la short story, per le molteplici possibilità della narrazione. Una lettera d’amore che si rinnova pagina dopo pagina, racconto dopo racconto.
Debora Lambruschini
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