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«Abbiamo tutti qualcosa per cui essere presi in giro»: una storia di bullismo, di amicizia e di resistenza per la propria terra ne “Il ragazzo con la kefiah arancione” di Alae Al Said

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Il ragazzo con la kefiah arancione
di Alae Al Said
Ponte alle Grazie, 18 marzo 2025

pp. 448
€ 19,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

«Già» sospirò Murad, «non riesco a immaginarlo un Medio Oriente in cui non esistevano confini, barriere. Eppure, c’è stato un tempo in cui eravamo un’unica grande nazione. Le strade di Gerusalemme portavano ad Aleppo e quelle di Aleppo a Bassora. Non c’è niente che limitasse il commercio, le relazioni, gli scambi culturali. Anche se noi lo dimentichiamo, queste linee sulla kefiah dovrebbero ricordarci quanto era bello essere uniti». (p. 97)

Il ragazzo con la kefiah arancione è un romanzo di formazione, toccante e multitematico della scrittrice italo-palestinese Alae Al Said, giunta al suo secondo romanzo. L’autrice, pur essendo nata e cresciuta in Italia, ha scelto ancora una volta di parlare della Palestina e della sua diaspora: il suo è il punto di vista privilegiato di chi esplora il mondo avendo due radici, due appartenenze. Da un lato la realtà italiana con tutte le sue contraddizioni, dall’altro la cultura e la storia palestinese vissuta attraverso le narrazioni familiari con il peso di tutte le ingiustizie e della lotta per la resistenza di un popolo. 

Il ragazzo con la kefiah arancione è una storia con tanti spunti narrativi e di riflessione: il protagonista è Loai, un ragazzino dai capelli del colore delle carote, lo stesso di quelli di sua madre Randa, mite e studioso. Per il suo rendimento scolastico e per il colore dei suoi capelli viene non solo preso in giro dai compagni di classe, ma soprattutto è bullizzato prima solo da un gruppetto capeggiato dall’invidioso Amir, ma poi anche dagli altri compagni fino a rendergli impossibile recarsi a scuola in sicurezza. I dispetti si fanno sempre più spietati e sono volti a isolarlo completamente dal resto della classe. La famiglia di Loai è ben conosciuta in paese, ad Al Khalil (nel governatorato di Hebron in Cisgiordania), perché produce kefiah di qualità pregiata: l’azienda è mandata avanti da suo padre Yaser e dal fratello maggiore Murad. Alle prime manifestazioni di bullismo è sua madre Randa che si preoccupa e preme affinché Loai cambi scuola, ma Yaser, più pragmatico e intransigente verso il figlio, si oppone, sostenendo che il ragazzo deve imparare a difendersi e a farsi valere. 

Le pagine del romanzo dedicate a questa fase molto dolorosa della vita di Loai sono scritte con delicatezza e profondità. Il bullismo è, nel romanzo, dipinto in tutta la sua crudeltà cieca, ed è non solo fisico, ma anche e soprattutto psicologico e sociale. Amir e i suoi compagni vogliono farlo sentire solo, sbagliato, inadeguato, spregevole. L’autrice non si limita a raccontare cosa accade, ma anche in che modo accade, ci racconta come percepisce Loai questa pesante situazione e il lettore conoscerà cosa si cela dietro ai silenzi di lui. In questo momento di dolore e impotenza Loai trova un’ancora di salvezza: l’amicizia con Ahmad, un ragazzo povero, di poco più grande di lui, con una storia familiare di abbandono. Il ragazzo possiede quel carisma e quella sicurezza di sé di cui difetta Loai e la sua amicizia è un raggio di sole che riscalda quella sezione così dolorosa e amara del libro e la vita del protagonista. Il ragazzo consolerà il nostro protagonista:

Abbiamo tutti qualcosa per cui essere presi in giro. Siamo tutti attaccatili: i bulli decidono di scagliarsi contro chi considerano più fragile. Amir stesso avrebbe avuto molte cose per cui essere trattato male: la sua statura, il fisico minuto. Avrebbero potuto chiamarlo ‘nano’, ‘ramoscello secco’, ‘stuzzicadenti’. Eppure mostrava una tale sicurezza, un tale carisma che nessuno si sarebbe mai permesso di farlo. (p. 120)
È proprio Ahmad il ragazzo con la kefiah arancione, quella kefiah diversa da tutte le altre, soprattutto per quel colore bizzarro che tanto evoca il colore dei capelli di Loai e che gli ricordava le umiliazioni che aveva dovuto subire un giorno fuori dal cortile della scuola per opera di Amir.
Ahmad, camminando fiero con la kefiah, aveva lasciato i suoi compagni a bocca aperta. Era arrivato il messaggio: a Loai non importa nulla della provocazioni. E da quel momento, come per miracolo diminuirono. (p. 127)

Ma la vita non è così semplice, i drammi non si risolvono come per magia e questo il popolo palestinese lo sa. Alae al Said ha scritto una storia toccante e potente, realistica e senza retorica adatta a tutti. Loai verrà messo a dura prova anche dall’amico Ahmad e i soprusi dei compagni di classe arriveranno a convincere anche il padre Yaser a seguire i consigli della moglie e a far trasferire il ragazzo fuori da Hebron, verso una nuova, bella città, Nablus. Il romanzo è ambientato negli anni ‘60 e ‘70, quelli in cui cresce Loai e il Medioriente è sconvolto da guerre, rivoluzioni, svolte ideologiche e grandi trasformazioni sociali: la guerra dei Sei Giorni che vede Israele conquistare la penisola del Sinai, Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Sono anche gli anni di Gamal Abdel Nasser, presidente egiziano che diventa un vero eroe in tutto il mondo arabo per aver nazionalizzato il canale di Suez e aver scompaginato così gli equilibri commerciali e politici dei paesi occidentali. Loai e la sua famiglia vivono sulla propria pelle questi eventi che entrano nelle loro vite e nelle pagine di questo intenso romanzo senza tuttavia diventare snodi narrativi predominanti. 

La bravura della scrittrice è proprio quella di aver fuso la vita di un ragazzo in cui ogni lettore può immedesimarsi e forse trovare in lui una parte di sé, con un periodo circoscritto di storia della Palestina vissuta da chi è coinvolto nella Storia. Ho trovato molto interessanti le pagine in cui la gente comune che Loai incontra per strada parla di Nasser e di Arafat: ho trovato davvero pochi romanzi che toccano queste figure così carismatiche, controverse, ma che hanno segnato profondamente la storia dei paesi arabi. Io ricordo molto bene le immagini di Arafat, colui che ha fatto conoscere al mondo intero la kefiah e i suoi meravigliosi significati, ma non avevo mai notato che nella sua foggia lasciava un lembo di tessuto a riprodurre la forma della Palestina. In una delle più belle pagine del libro, Murad, fratello maggiore di Loai, mostra a lui e all’amico Ahmad il funzionamento delle macchine tessili e racconta le trame della kefiah:

«[…] Le città che ci hanno rubato sono sul nostro collo, vicine al nostro cuore. Il disegno più grande della kefiah, quello più esteso omaggia proprio i pescatori di Yafa, Akka, Haifa. Rappresenta il legame della Palestina con il Mediterraneo e dà voce all’’audacia dei pescatori palestinesi. Nessuno ci pensa mai, ma il lavoro del pescatore è tremendo; pensa a quanta pazienza devono avere questi uomini. Pensa alla loro infinita attesa. Nella loro testa ballano anche le onde e il loro naso è pieno di sale». […] «Però questa trama potrebbe avere anche un altro significato» esordì Ahmad, ispirato da quella primavera di pensieri. «Guardatela, non vi sembra una recinzione? Il loro progetto è rinchiuderci dentro una grande prigione. È già successo con i profughi del Quarantotto, sono isolati e dimenticati. Quindi, la recinzione sulla kefiah potrebbe essere la metafora del dramma palestinese». (pp. 97-98)

In questo libro l’amicizia costituisce lo snodo narrativo principale come si è già detto, ma c’è anche un’altra tematica trattata con incisione, quella del lavoro della donna, dell’emancipazione della donna in quegli anni, nei paesi arabi, attraverso la figura della bella Halima, l’insegnante di matematica nella scuola maschile frequentata ad al Khalil da Loai. La docente, oltre a essere l’unica del corpo insegnante a essersi accorta delle azioni di bullismo contro il ragazzino, è anche l’unica donna in quella scuola maschile e nei consigli di classe non ha voce, nessuno le presta attenzione. Halima ama insegnare, ha l’ambizione di scovare belle menti e ragazzi studiosi votati all’università e non potrebbe mai insegnare in una scuola femminile visto che le ragazze aspirano al massimo solo a un buon matrimonio. I genitori di lei e anche Yaser, padre di Loai e di Murad (quest’ultimo è innamorato della giovane insegnante di matematica) non credono nel bisogno di autoaffermazione della donna, del suo bisogno di realizzarsi fuori dalle mura domestiche e, soprattutto nell’amore passionale, l’hobb:
«Il matrimonio è un progetto, un investimento. L’amore è un sentimento. E i sentimenti, di natura, sono passeggeri. Dopo anni di matrimonio, non ne rimane poi così tanto di questo hobb che voi giovani tanto cercate. Ciò che resta è ciò in cui hai investito. I valori della persona, il carattere. (p. 112)

Halima e Randa sono i personaggi in cui Alae Al Said incarna il bisogno femminile di avere quella famosa «stanza tutta per sé» di cui parla Virginia Woolf che, nel caso della prima è un lavoro che possa farla sentire produttiva e ambiziosa senza trascurare i figli e la famiglia, e, nel caso di Randa, la madre di Loai, è…un armadio! Esattamente, la donna ha un armadio chiuso a chiave dove dice di riporre biancheria e servizi di piatti per gli ospiti, ma che in realtà serve a nascondere la sua passione segreta: confezionare abiti con tatreez, l’ intricato ricamo tradizionale palestinese: «è un lavoro tutto mio, una cosa solo mia e di nessun altro. Capisci?» (p. 240) dirà la donna al figlio maggiore.

Il ragazzo con la kefiah arancione è un romanzo che ho molto apprezzato: le storie non sono scontate, le tematiche identitarie e culturali sono decisamente trattate con forza e incisione, le sequenze narrative e dialogiche sono ben distribuite e armonizzate per una lettura che non è mai pesante e dispersiva, ma godibile e toccante.

Marianna Inserra