La mia vita come la vostra
di Jan Grue
Iperborea, 2025
Traduzione di Eva Valvo
pp. 226
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)
Non esiste un me senza questo corpo, un me con un corpo non segnato, altrimenti sarebbe un corpo che ha vissuto un’altra vita. (p. 146)
La mia vita come la vostra è un’opera frammentata e potente, come frammentata e potente è la vita, che sbaraglia ogni pronostico; come l’identità, che rifiuta di farsi incasellare in riquadri predefiniti; come il corpo, che «non conosce né la diagnosi né la prognosi» e quindi cresce e opera «alle proprie condizioni» (p. 13).
Affetto fin da bambino da una patologia neuromuscolare che limita i
suoi movimenti e abbrevia di molto le sue aspettative di sopravvivenza, almeno
sulla carta, l’autore racconta di come – poco alla volta – si è riappropriato di sé stesso, in un
percorso di ferma autodeterminazione,
che l’ha portato a fare carriera in ambito accademico, viaggiare, innamorarsi,
diventare padre… come l’angelo di Wim Wenders, alter ego cinematografico, anche
lui impara progressivamente a farsi uomo, a stare nell’immanenza, a
sperimentare un quotidiano fatto di scoperte e sensorialità. Nella ricostruzione
per lampi di sé («non voglio essere
facilmente accessibile, voglio essere capito intuitivamente», annota Jan
Grue a p. 18), i modelli
artistico-letterari sono molti: J.L. Borges, che ha esplorato narrativamente
le vie del possibile; Joan Didion, che ha saputo sezionare la propria intimità,
dar voce alla fragilità della perdita e della permanenza; il poeta Mark
O’Brian, la sua «ombra junghiana» (p. 20), ma anche Michel Foucault o Rosemarie
Garland-Thomson, che hanno indagato i condizionamenti derivanti dall’essere sottoposti allo sguardo altrui. Quella
della persona con disabilità è infatti, innanzitutto, un’esistenza in
dipendenza – da altri, da mezzi, da vincoli posti dal corpo o, altrettanto
spesso, da una società miope.
La riflessione di Grue sull’identità, il tempo, la memoria trae nuovo impulso quando i genitori, dopo la nascita di suo figlio Alexander, gli consegnano una fitta raccolta di documenti, medici e non solo, che riguardano la sua vita precedente, il suo percorso di crescita. Rispetto a essi, l’autore percepisce una sorta di scarto:
questa cronologia è diversa da quella che ricordo di aver seguito, è una vita diversa da quella che ricordo di avere vissuto. (p. 32)
Il tempo è una successione di istanti, una sequenza cronologica, ma è anche il kairòs,
un eterno presente, in cui ciò che è stato viene recuperato attraverso il
ricordo, in funzione del presente, di ciò che si è diventati: «siamo palinsesti. […] Tutto sbiadisce, tutto
lascia un’impronta» (p. 35). Per questo anche le carte, recuperate a distanza di anni, raccontano una storia diversa,
perché diverso è il lettore, colui che dà loro voce. Il corpo si fa impronta dell’uomo nel mondo, strumento perfetto pur
nell’imperfezione. Ha ritmi suoi, esigenze sue, ma può essere anche alleato,
mezzo per abbattere previsioni, stereotipi e pregiudizi.
La nuova concezione della disabilità deve
passare attraverso una revisione del
linguaggio, l’adottare una prospettiva che smetta di considerare la vita
del soggetto un surrogato, cioè un sostituto lacunoso, della vita vera («ho cominciato a scrivere perché avevo
bisogno di un linguaggio diverso da quello che mi era stato offerto all’inizio»,
p. 68). Il linguaggio della clinica e
dei referti è infatti pessimista,
il futuro che traccia è fosco e il narratore rifiuta di farsi definire e
limitare dalle pratiche che circoscrivono la sua diagnosi. Per lui la sedia a
rotelle non è gabbia, ma occasione di libertà, via per esplorare il mondo. Da
un certo momento in poi, diventa una parte di lui, l’elemento di una
collaborazione vantaggiosa. Durante l’infanzia, la sedia non è elemento di
emarginazione: lui è stato un bambino differente dagli altri nelle possibilità
fisiche, ma non nei desideri, nella sostanza emotiva. La coscienza del limite è iniziata dopo, con il sopraggiungere di una
percezione più compiuta di sé. In tal senso, i documenti ritrovati delineano un
processo di acquisizione di consapevolezza che ha coinvolto l’intera famiglia, ed è dovuta passare attraverso diverse
esperienze, positive o negative. Le reazioni,
del figlio come dei genitori, sono molteplici,
stratificate: l’indignazione nei confronti di una burocrazia ottusa, la
pazienza, l’ostinazione, la resilienza, la vergogna involontaria, che va
dominata e repressa, il senso della rinuncia di fronte a battaglie che non vale
la pena combattere. Allo stesso tempo ci sono tanti momenti di forza, di magia,
che non possono essere restituiti, perché impalpabili, e recuperati ora nella
memoria, in contrasto con la sterile freddezza dei referti o delle pratiche
assistenziali.
Jan Grue lavora sempre su un doppio binario: quello emotivo e quello intellettuale, i ricordi e le testimonianze scritte, i sentimenti e i documenti. Da qui deriva la natura ibrida dell’opera, che ad aneddoti di famiglia può alternare senza soluzione di continuità la “storia sociale” della sedia a rotelle. L’obiettivo è mostrare la realtà – non solo la sua – sotto una prospettiva diversa, difficile da comprendere per chi si è sempre considerato espressione di una “normalità”, di solito contrapposta a molte “differenze”.
Ho conosciuto gente […] che vorrebbe vedere tutto racchiuso in una cattedrale di senso, per cui ogni singola vita dovrebbe essere plasmata da una logica morale interiore. Un simile atteggiamento non deve per forza fondarsi sul credo religioso […] Può essere benissimo dettato dalla banalità che emerge per esempio nei proverbi. Non tutto il male viene per nuocere […] La logica morale facilita il racconto, è come una sagoma che permette di tagliare via tutto il superfluo. Io sono uno scrittore e un accademico perché sono disabile. Sto bene nel ruolo di disabile perché sono un tipo intellettuale. (pp. 124-125)
Grue deve attraversare molti luoghi per capire che in alcuni casi bisogna agire su se stessi, invece che sul mondo. Luoghi come San Pietroburgo, o Amsterdam, dove trascorre periodi prolungati nel suo percorso di studi, non sono accoglienti con lui, non tanto per cattiva volontà, quanto per la loro stessa natura, di città “storiche e pittoresche”: se i luoghi universitari sono sempre ampi, facilmente accessibili, non si può dire lo stesso delle case private, o degli edifici in cui si annida l’anima antica della città.
Perché sono andato proprio là? […] Non ho ancora trovato una risposta soddisfacente, se non che mi piaceva sbattere la testa contro il muro, credevo ancora che avrebbe ceduto prima il muro. (p. 118)
Quando il muro non cede, o cede rivelando altri muri, in un labirinto senza uscita, si deve iniziare a cercare nuovi spazi, nuovi terreni di gioco, che siano finalmente
adatti, luoghi di possibile realizzazione del sé. Per Jan Grue, uno di questi
luoghi è la California, dove ritorna più volte, prima da solo, poi con Ida,
all’inizio del loro amore. Un ambiente a misura d’uomo, del resto, non toglie
la necessità di pianificare ogni cosa: «la
quotidianità è una disciplina sportiva» (p. 151) per chi deve immaginare
preventivamente ogni traiettoria, ogni movimento. È però l’arrivo di Alexander,
miracolo desiderato, a cambiare per il neo-padre il punto di vista e la
percezione del tempo. In lui si concretizza
l’idea del futuro, ma è anche possibile rileggere il passato in ottica nuova: rivedere nella sua crescita
una variante della propria, intuire il sentire dei propri genitori, provare a
immedesimarsi in loro e ricostruire il processo del suo sviluppo attraverso i
loro occhi. Capire che ogni vita è una
strada a sé, che nel suo tracciato esclude ogni altra vita possibile, e che
pure ha tratti in comune con quelle altrui, come con quelle non realizzate.
Il volume di Jan Grue è la storia di una
accettazione, di un riconoscimento di fragilità che implica la connessione
profondissima fra corpo e anima, tra un’anima che non può prescindere dal corpo
che abita, e un corpo che non può prescindere dal suo essere concreto nel
mondo. È una storia personale. Al
contempo, però, è un’opera dal forte
contenuto politico e sociale, che ci obbliga a interrogarci su dinamiche
che ci sono estranee, sul (mal)funzionamento dello Stato assistenziale,
sull’ipocrisia e la grettezza involontaria in cui a volte sprofondiamo. Mentre
occupa il proprio posto nella realtà, esattamente per quello che è, mentre
capisce che molto (ma non tutto) dipende da lui, Grue mette a punto la propria personale forma di resistenza, che non
è quella che passa attraverso le grida, ma attraverso
la scrittura, nitidissima, della propria condizione:
con queste parole, con questo libro, mi creo uno spazio nel mondo. Se ci riesco, trasformo un pezzetto di mondo, il mio pezzetto, con questo libro, con queste parole. (pp. 185-186)
E se il mondo oppone a sua volta resistenza, è attraverso l’educazione, diffusa, condivisa, che si può provare a
cambiarlo. Come osservava però Freud in un breve saggio poco noto, l’analisi è
di per sé interminabile. È quindi necessario definire un limite, che è – forse
necessariamente – quello in cui il soggetto si predispone, con curiosità e
coraggio, in attitudine di fiducia, davanti a un futuro che ancora non conosce,
ma che sa di poter affrontare, davanti a un tempo – questo sì – ancora da
scrivere.
Carolina
Pernigo