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La storia di Aldo, l'ultimo soldato a difesa del silenzio. La nebbia e il fuoco di Roberto Cotroneo

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La nebbia e il fuoco
di Roberto Cotroneo
Feltrinelli, aprile 2025

pp. 144
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


«Alessandria è più vasta del Sahara, attraversata da Fate Morgane slavate», scriveva Umberto Eco in un breve scritto autobiografico e di miraggi e memorie è intessuto l'ultimo romanzo di Roberto Cotroneo, che parla della sua città natale e delle sue memorie. In questo caso l'aggettivo possessivo deve essere attribuito sia alle memorie di Cotroneo che di Alessandria, in un intreccio di epifanie e presagi. 
Ma non solo ricordi personali, La nebbia e il fuoco si interroga sulla memoria quale luogo attivo e creativo, non meramente museale, di formazione dell'identità di una nazione.
Scrivo con pudore quest'ultimo periodo, perché se vi è un male che Cotroneo sfugge come la peste è la retorica, anche in questo libro in cui si parla di Resistenza, di coraggio, di poesia. E riuscire a scrivere di Resistenza, di coraggio, di poesia senza cadere nella retorica è già il metro che misura il valore di questo romanzo.

Il narratore (ma, come nel libro precedente di Cotroneo, la differenza tra il narratore e lo scrittore è il primo concetto sfumato, la prima "nebbia" del romanzo) torna ad Alessandria e incontra casualmente Gepi, un vecchio amico. Come spesso capita negli incontri con persone con cui si è condiviso un lontano passato, si torna a parlare proprio di quel periodo. Così, fuggevolmente, Gepi racconta al narratore che Aldo, l'amato professore di inglese del liceo, da giovane aveva fatto parte della Resistenza, partecipando ad una spedizione in cui, in città, era stato ucciso un colonnello. Aldo non aveva mai fatto cenno della sua adesione alla Resistenza e questo porta il narratore a interrogarsi non solo sui documenti storici, ma soprattutto sul silenzio di chi crede che la testimonianza debba seguire altre strade, non quelle dell'esibizione.
Qualcuno ha detto che le tue radici sono dove sei stato felice per la prima volta. Ma temo che quel momento, quel bagliore di felicità mi sia accaduto altrove, non ad Alessandria, dove sono nato e ho trascorso la mia giovinezza. Eppure nel disegno della mia memoria lì c'è di sicuro qualcosa con cui devo fare i conti. (p. 11)

La necessità di fare i conti con il passato è dato da un atteggiamento più che storico, archeologico nei confronti del medesimo. Non è una ricerca del tempo perduto, perché ciò che si cerca lo si riscrive. Non vi è più la possibilità di attingere in maniera "oggettiva" a ciò che è stato. 

C'è bisogno di fuggire quando si è già fuggiti? C'è una ragione per andare via quando si è già lontani? Accade, e non è raro, che si abbia bisogno di fuggire quando si è già altrove, Come se essere altrove non garantisca sempre lontananza, ma possa finire per essere un modo del tornare vicini in una maniera subdola, crescente, persino asintomatica. (p.11)

Vi sono due movimenti opposti alla base del romanzo: la forza centrifuga che ha spinto il narratore lontano da Alessandria, lontano dalle proprie radici, Alessandria lontano dal proprio passato, in un oblio che genera indifferenza e grigiore, e l'Italia lontano dai propri uomini esemplari, nella deleteria dimenticanza di una virtù silenziosa. La forza centripeta che esige - quasi come un imperativo categorico - di ricordare.

«Cosa significa davvero oltrepassare i destini? E sopravvivergli? Significa forse tornare indietro e riscrivere il passato per come accadde, e non per come lo abbiamo sempre ricordato. E non perché sappiamo di più di quanto è accaduto e conosciamo meglio quelle vecchie storie, ma perché sappiamo cosa siamo diventati» (p. 59).

Tengo a precisare, in questo ormai immane profluvio di autofiction che imperversano nella narrativa nostrana, che non userei mai questo termine per definire La nebbia e il fuoco, nel quale la memoria personale funge da grimaldello per una memoria sovrapersonale e collettiva, come la buona letteratura dovrebbe fare. Non un citarsi addosso, o un'autoreferenziale conta dei propri successi o insuccessi, ma un'apertura di uno spazio vuoto, misterioso, svanito anche dalla toponomastica cittadina, in cui per cenni e lampeggiamenti può apparire l'alterità di un passato rimosso. È un libro in cui la Storia e la memoria personale si uniscono e in un mondo in cui la Storia o viene revisionata oppure viene semplicemente celebrata con formule stanche, Cotroneo indica un modo differente in cui Storia possono di nuovo stringersi in un abbraccio rivelatore, senza apparire didascalici e retorici. 

Io non lo definirei un libro sulla Resistenza.

Probabilmente un libro sul fondo oscuro, fatto di violenza e di insensatezza, che c'è alla base di ogni muoversi umano nella Storia, in cui «la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto» come sapeva il buon Manzoni. In un mondo in cui tutti devono esibire uno schieramento, prendere posizione, sbandierare certezze, la nebbia è invece un correlato oggettivo del procedere degli uomini nel loro tempo. Non vedono, non sanno, vanno per tentativi, spinti taluni da un fuoco, che come la fiamma olimpica può essere affidato in staffetta a chi viene dopo di noi. Aldo è un tedoforo, un portatore del fuoco della conoscenza, della virtù, colui che ha rischiarato la nebbia del giovane narratore e che, probabilmente, continua a rischiare le giornate dell'adulto, attraverso la memoria e la scrittura.

Il romanzo è introdotto da un'epigrafe dantesca, la stessa che si trova in Canto d'amore di J.A. Prufock di Thomas Stearn Eliot. «Con chi è Prufock, lei lo sa?» (p. 19), chiese Aldo al narratore, una delle prime lezioni. Ma lui non conosceva T.S. Eliot, nessuno della classe lo conosceva. Aldo portò loro una musica diversa, in cui «non erano donzellette, non era maggio, non erano pargolette mani» (p. 19). Con chi cammina Proufock quando la sera si stende contro il cielo/Come un paziente eterizzato disteso su una tavola? Passeggia con lo stesso compagno con cui cammina Roberto Cotroneo ne La nebbia e il fuoco: la propria coscienza. La domanda che inquieta il narratore è la stessa ineludibile domanda che attanaglia Prufock: Oserò turbare l'universo?

Ma chi era Aldo? Quell'uomo diverso da qualsiasi insegnante avessi mai incontrato prima? Negli anni a venire non avrei scoperto molto. [...] Correva voce fosse stato partigiano ma dalle mie parti o si era fascisti o si era partigiani, la zona grigia non c'era. Per cui non vi facemmo caso. (pp. 20/21).

La figura di Aldo ci viene presentata attraverso pochi dettagli, la firma sul registro, il non fare l'appello, l'abitudine a rivolgersi con il lei ai ragazzi, il suo interrogare curioso, che faceva sentire gli studenti parte di quel dialogo ininterrotto fra la tradizione e il presente, che dovrebbe proprio essere il senso della scuola. 

«Aldo è il silenzio, l’oblio che è un diritto di tutti. Non quello di essere dimenticati, ma quello di lasciarsi ricordare davvero. È l'ultimo soldato, l'ultimo partigiano sulle montagne, che però sa bene che la guerra è finita. Ma non vuole stare in prima fila. È un mondo intatto di quando il narcisismo era un argomento per psicoanalisti, non una condizione del vivere e dell'esistere, non un prodotto di consumo, se si può intendere come prodotto di consumo una patologia della mente più o meno grave. Ci ripenso, non trovo in lui, mai, alcun compiacimento» (p. 119)

Cotroneo scrive che «questo è un libro sulla missione di insegnare» (p.3). Il termine missione oggi può creare orticaria nei docenti, per l'abuso che se ne è fatto e soprattutto perché con esso si coprono riforme scolastiche oscene e la visione della scuola come un'incubatrice di impresa. Eppure questa parola viene restituita alla sua originale ricchezza, in questo romanzo.

Insegnare è assai più patriottico che cantare l’Inno di Mameli a squarciagola con la mano sul cuore, a beneficio delle telecamere. Ed è patriottico condurre dei giovani ancora privi di letture e di esperienza ad avere un’indipendenza di giudizio, di spirito critico. (p. 75)

Poi, l'autore afferma che «è un libro su un tempo che non può tornare» (p.3), come non dovrebbe tornare Dante nel mondo e nel tempo dei vivi, nell'epigrafe di cui prima parlavo. S’i’ credesse che mia risposta fosse/a persona che mai tornasse al mondo,/Questa fiamma staria sanza più scosse./Ma perciocché giammai di questo fondo/Non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,/Senza tema d’infamia ti rispondo.

Guido da Montefeltro confida a Dante il suo dolore solo perché è convinto che lui non tornerà nel mondo dei vivi, che non potrà comunicare la notizia a nessuno. E in fondo la letteratura è forse l'illusione del mantenimento di questo segreto. Dire sotto celate forme, tacere inventando storie e ricreando mondi. Nella bellissima chiusa di questo romanzo, in cui ancora una volta il narratore e l'autore si confondono, si intersecano, si scambiano la fisionomia, Cotroneo scrive che «la memoria non è in grado di restituire il tempo trascorso» (p. 147). Non vi è una madeleine in questo romanzo, ma un Aprés-coup, una riscrittura, una lettera non spedita ed una risposta data in un momento sbagliato.

Ma che forse, alla fine, è quello giusto.

Come di una lettera del passato, come di una lettera ritrovata, il lettore de La nebbia e il fuoco, è tenuto a custodire le parole dell'autore e la persona di Aldo, che finalmente è stato sottratto dal fondo dell'oblio.

Deborah Donato